Sud Africa, 1981. Siamo in pieno apartheid, il paese è governato dalla minoranza bianca ed è in guerra contro l’Angola per scongiurare il pericolo del comunismo. Tutti i ragazzi che hanno più di sedici anni devono affrontare il servizio militare obbligatorio, e tra loro anche Nicholas Van der Swart. Quattro anni dopo The Endless River, il regista sudafricano Oliver Hermanus torna a Venezia con Moffie, tratto dal romanzo autobiografico di André Carl van der Merwe.
Nicholas, alter ego dell’autore, viene catapultato in un inferno militaresco nel mezzo del deserto sudafricano, ritratto in inquadrature in campo lungo che lasciano ampio spazio a una fotografia nitida e devota alla natura selvaggia e soverchiante. Qui l’unica cosa che conta è la difesa del paese nel nome di Dio e della patria. Il nemico è il pericolo comunista che avanza, ma lo sono anche i neri, già vittime della segregazione razziale dall’instaurazione del regime nel 1948, e i “moffies”, termine dispregiativo che indica i deboli, gli effemminati, gli omosessuali. Basta un niente per ritrovarsi addosso l’accusa di essere un “moffie”, e a quel punto, dopo la pubblica umiliazione, si rischia di venire internati nel famigerato reparto 22. L’esibizione della forza fisica e l’estremizzazione della virilità finiscono per diventare un’ossessione omofobica, contagiando lo stesso Nicholas. Anche nel brutto ricordo di un episodio d’infanzia, anche nell’affinità e nell’attrazione crescente nei confronti di Stassen, l’unico compagno d’armi capace di un gesto gentile. E, come già accadeva in Beauty, con cui si aggiudicò la Queer Palm a Cannes nel 2011, di fronte al pericolo dell’omosessualità l’unica reazione possibile è la negazione forzata, seguita da una risposta inevitabilmente violenta.
È un gioco del terrore, un’educazione all’odio nei toni duri e spigolosi dell’afrikaans, la lingua originaria dei coloni boeri. Ed è talmente efficace che finisce per diventare un addestramento all’odio tout court, spingendo a disprezzare chiunque, anche chi ha la pelle dello stesso colore. Un disprezzo che ha radici molto antiche, che affondano nelle origini storiche del Sudafrica. Un paese frammentato in diverse etnie, tra bianchi, neri, e i bianchi a loro volta divisi tra la maggioranza degli afrikaner e la minoranza di origini inglesi. Anche Nicholas, che appartiene a quest’ultimo gruppo, rischia di diventare un emarginato.
Tra le angherie degli ufficiali e le cattiverie dei commilitoni, i due anni di leva si trasformano in una lotta alla sopravvivenza in vista del confine, dove finalmente si incontrerà il nemico per servire la nazione. La logica machista e militarista dell’esercito riesce a trasformare in guerra ogni cosa, persino i momenti di svago si riducono nell’ennesima occasione per fare a botte. Ma Hermanus non cade nell’errore di esagerare la violenza, riservandola a brevi istanti in cui esplode improvvisamente e inaspettatamente. Preferisce piuttosto indugiare nei primi piani fatti di silenzi e di sguardi, in cui le emozioni vengono soffocate e le parole rimangono in bocca. Perché il trauma della guerra non si può più esprimere a voce, e, dopo aver visto un uomo che muore, nessuno sarà più in grado di amare come prima. Quando l’odio regna sovrano, “even birds are chained to the sky”, anche gli uccelli sono incatenati al cielo.