Tony Driver è il titolo del film di Ascanio Petrini presentato alla Settimana Internazionale della Critica della 76^ Mostra del cinema di Venezia. Ma è prima di tutto il suo protagonista. Un protagonista che richiama, già a partire da questo soprannome, il Taxi Driver di Scorsese, incarnazione emblematica – il regista, prima ancora che il personaggio interpretato da De Niro – dell’italoamericano negli Stati Uniti. Come Travis Brickle, anche Tony tiene le mani sul volante. Anche se pare strano perché, come si vede non appena si allarga l’inquadratura, non è seduto in macchina, al posto del guidatore, ma all’aperto, nel bel mezzo di una terra spoglia e riarsa dal sole, e quella che finge di guidare è un’auto immaginaria. La stessa su cui, qualche anno prima, è stato arrestato perché trasportava illegalmente immigrati messicani.
Quello di Petrini è un documentario sui generis, che segue fedelmente la vita del suo personaggio senza però rinunciare alla ricostruzione cinematografica di quanto necessario alla narrazione. Tony Driver si chiama Pasquale Donatone ed è nato a Bari nel 1963. Quando aveva più o meno nove anni, i suoi genitori hanno deciso di trasferirsi a Chicago. È lì che ha studiato, si è sposato, ha avuto due figli e ha divorziato. Ed è lì che tuttora vorrebbe tornare, perché è lì che si sente a casa. Ma non può, perché dopo l’arresto per traffico illecito di migranti è stato rimandato in Italia. Pasquale vive in una roulotte con la bandiera a stelle strisce di fianco all’ingresso, un dizionario italiano-inglese a portata di mano e il sogno costante di tornare in America. La sua è una storia di andata e ritorno spezzata a metà: emigrato da bambino, è cresciuto come un cittadino americano senza tuttavia mai preoccuparsi di prendere la cittadinanza perché, come spiega con limpida ingenuità, era impegnato a farsi una vita. Poi è stato obbligato a riemigrare nel suo paese d’origine. Un italiano che si sente americano, ma che non è né l’uno né l’altro. Una condizione paradossale, la cui assurdità viene enfatizzata da alcune intuizioni della regia, come nel montaggio alternato in cui, da una parte, un avvocato spiega come funziona la legge sulla cittadinanza, e dall’altra c’è Tony, dietro le sbarre di un ipotetico carcere, che si chiede cos’altro serve, dopo aver vissuto quarant’anni negli Stati Uniti.
Una contraddizione evidente che Tony sa esprimere solo in un modo: ripetendo a chiunque incontri, nel suo italiano stentato con accento americano – ma non senza un accenno di cadenza pugliese – che passerà il confine per tornare negli Stati Uniti. Pasquale e Tony sono la stessa persona scissa in due non-luoghi diversi: un paese in cui non si sente a casa, ma in cui è nato, e un paese in cui vorrebbe tornare, ma che lo rifiuta. Per questo, Tony che finge di giocare a baseball in un campo da tennis è l’immagine simbolo di un uomo senza patria e senza più identità. Il risultato di una politica migratoria fondata sui muri, come quello al confine con il Messico, che si perde nella prospettiva di una periferia degradata.
Ed è qui che il film di Petrini raggiunge il suo culmine: lui che portava i messicani al confine alla guida di un taxi, ora si fa portare a sua volta al confine da un taxista messicano. Come a dire che è sempre la stessa storia che si perpetua di generazione in generazione, da un capo all’altro del mondo: il paesaggio arido di Polignano a Mare e le lande sconfinate al confine tra Messico e Arizona non sono che lo stesso sconfortante deserto che si prospetta di fronte a chi emigra dalla propria terra. Così Tony decide non mollare e di oltrepassare la frontiera.
Ad accompagnarlo nel suo proposito, una delle canzoni più note del folk americano, che celebra le origini di un paese nato dall’accoglienza di chi veniva da lontano: This Land Is Your Land di Woodie Guthrie, in una delle sue innumerevoli reinterpretazioni. E che nel testo originale recita: «There was a big high wall there that tried to stop me; sign was painted, it said private property; but on the back side it didn't say nothing; this land was made for you and me». Questa terra è stata fatta per te e per me. E mentre Tony corre verso il confine, un’altra canzone, questa volta in italiano, riecheggia alle sue spalle: Basta così di Pier Giorgio Farina, colonna sonora di 10.000 dollari per un massacro di Romolo Guerrieri. L’eterno ritorno dei banditi e dei cacciatori di taglie.