Il film in concorso di Lou Ye si manifesta apertamente e sin da principio come un discorso complesso in cui realtà e rappresentazione, verità e finzione si intrecciano a diversi livelli.
È innanzitutto il livello della rappresentazione nella rappresentazione – cioè del dramma teatrale concepito da Tan Na, amante dell’attrice Jin Yu – il più evidente, dove l’opera (chiamata anch’essa Saturday Fiction) richiama eventi e rapporti esistiti o esistenti nell’universo del film.
È poi il livello della narrazione primaria, l’intreccio stesso del film, che mescola eventi storici con avvenimenti e personaggi fittizi. Gli stessi personaggi, a loro volta, sono tesi tra autenticità e finzione, siano essi attori di teatro, spie o entrambe le cose.
È inoltre il livello della forma, che confonde, miscela, impasta tra loro le scene creando un’atmosfera incerta e sospesa, e richiamando al contempo il complesso momento storico che fa da sfondo agli avvenimenti del film.
Il tema del doppio va di pari passo all’antitesi da cui il film prende le mosse e permea la narrazione ritornando costantemente e prepotentemente nelle scelte del regista: è nel concetto e nella messa in scena del teatro, diviso tra palcoscenico (il Lyceum) e backstage (il Cathay Hotel, fulcro dello spionaggio Alleato), così come nelle ambientazioni, quelle reali e quelle riprodotte per la scena teatrale. Ma è soprattutto a livello dei soggetti che il tema fondante si rivela: la doppia faccia dello spionaggio, la personificazione di un ruolo – l’ammiratrice di Jin che la sostituisce, Jin che recita la parte della moglie di una spia giapponese – fino all’utilizzo di simulacri (fotografie, poster, specchi) che moltiplicano, simbolicamente, la figura della protagonista.
Il bianco e nero, certamente, richiama gli anni dell’ambientazione (siamo nel 1941) rendendo omaggio, al contempo, al cinema che fu. Scelta stilistica, il monocromatico, che tuttavia si spinge ben oltre l’estetica. Non c’è colore, solo grigi chiari e scuri, e questa conformità rende impossibile cogliere le tonalità, le sfumature che personaggi e avvenimenti via via assumono. Rende impossibile, cioè, la mimesi del reale – inteso come l’autentico, il veritiero.
Il bianco e nero rievoca anche un certo romanticismo, di cui è punteggiato il sottotesto del film, che a un certo punto cita pure Goethe – che del romanticismo gettò le basi. Anche Lou Ye, infatti, restituisce una visione della Storia che trova le proprie fondamenta in un convinto soggettivismo, dove cioè è la scelta di una persona, intesa come singola coscienza, ad avere il potere di determinare le sorti degli eventi – persino eventi dalle ripercussioni mondiali, come l’informazione che Jin ottiene sull’imminente attacco a Pearl Harbor. Il romanticismo definisce l’esteriorità del mondo come manifestazione oggettiva dell’interiorità del soggetto. Quello che vediamo nel film – la finzione del teatro e dello spionaggio, e pure la Storia stessa – è dunque l’esternazione di un carattere insito nei personaggi, dotati ciascuno della facoltà di decidere (direttamente o indirettamente) del proprio e altrui destino attraverso semplici scelte – giuste o sbagliate.
Quello che pare a prima vista configurarsi come racconto corale su uno sfondo storico si rivela invece riflessione estremamente soggettivista che assegna a ciascuno il proprio (duplice) ruolo nel plasmare i rapporti umani e, in ultima analisi, l’intera società.
Gli elementi che concorrono alla definizione del film di Lou Ye, la dinamicità delle riprese e la fluidità dei generi che esplora, ne fanno un testo energico e originale, che non pesa di un’eccessiva autocelebrazione pur riuscendo a tradurre sullo schermo, con eleganza, la complessità delle proprie idee.