Un violento incendio ha completamente distrutto Assandira, l’impresa agroturistica in cui era stata trasformata un’antica casa colonica, con lo specifico intento di attirare clienti dal Nord Europa, proponendo loro di vivere l’esperienza della vita pastorale sarda come una sorta di spettacolo, un live di cui essere insieme spettatori e attori guidati. Nell’incendio è morto il titolare Mario Saru, figlio dell'anziano proprietario Costantino, che la vita del pastore invece l’ha svolta veramente, mentre la moglie tedesca di Mario, Grete, incinta, è ricoverata in ospedale. La pioggia battente, caduta tutta la notte, ha ormai spento le fiamme anche meglio dell’intervento dei vigili del fuoco. Tra le macerie, il fango e i carabinieri giunti sul posto per capire se si tratta di un fatto doloso c’è Costantino che, anche sollecitato dal magistrato inquirente a sua volta accorso, ripercorre gli accadimenti che hanno condotto al disastro.
Partendo dal dramma familiare ormai consumato, il film di Salvatore Mereu, tratto dal romanzo omonimo di Giulio Angioni pubblicato nel 2004, vuole dunque condurre e proporre una riflessione in grado di allargarsi a dimensioni sociali, culturali, storiche, portando allo scoperto l’intreccio dei contrasti che l’hanno nutrito, preparato e scatenato fino alle conseguenze ultime e irreparabili. Assandira, a dispetto del significato beneaugurante della parola, è dunque un film che parla di un conflitto dalle diverse sfaccettature, riguardante in ultima analisi, e ben al di là dei protagonisti della singola vicenda dei Saru, l’agonia di un mondo.
Tra Pasolini e Gramsci, a essere messa in scena è una guerra in atto a più livelli: fra la tradizione pastorale pre-industriale assimilata alla categoria dell’autenticità e l’irruzione della contemporaneità intesa come artificio e spettacolarizzazione inautentica di quel passato; di conseguenza, tra la cultura popolare legata a quella tradizione e l’industria culturale, in questo caso nella manifestazione specifica del turismo di massa, al servizio dei disvalori borghesi fondati sulla ricerca del denaro e del benessere a tutti i costi; una guerra che non può che essere anche generazionale – i figli contro i padri nel nome di un avvicendamento che non può non portare con sé vincitori e vinti, i padri identificati con i secondi, sfruttati in vecchiaia dopo esserlo stati in gioventù dalla famiglia patriarcale in cui sono nati e cresciuti. Emblematica a questo proposito la scelta di far interpretare il ruolo di Costantino a Gavino Ledda, portavoce con il suo Padre padrone di uno spirito di affrancamento ugualmente dirompente ma di ben altro segno.
Nel caso specifico della vicenda di Assandira, lo scenario del conflitto si allarga anche a una dimensione geo-culturale precisa: quella che vede contrapposte la memoria atavica dell’Europa mediterranea incapace di abbandonare del tutto la propria identità contadina e l’edonismo consumistico, oggettivamente irrispettoso di quella memoria trasformata in parco dei divertimenti, dell’Europa settentrionale ricca e “evoluta”. Dimensione che si radica nella famiglia Saru tramite la presenza attiva e inarrestabile di Grete, decisa a usare ogni mezzo per coinvolgere e convincere l’anziano suocero a favorire l’impresa del figlio, e non solo quella. In questo quadro, l’uso quasi compulsivo della Polaroid (il racconto si colloca in epoca pre-cellulari) da parte della donna ce la mostra di fatto come fautrice di un modo d’essere fondato sull’immagine, sull’apparenza costruita ed esibita incondizionatamente.
Assandira, lo si è capito, mette in scena una rete di questioni e di riferimenti culturali complessa e tutt’altro che facile da districare. Nel come trattare una tale complessità sta una delle differenze essenziali fra la scrittura e il cinema. Salvatore Mereu l’affronta senza timori, affondandovi lo sguardo suo e nostro con riprese a mano ravvicinate, addosso ai personaggi, uso di soggettive che chiudono l’orizzonte, per così dire, escludendo con attenzione ogni tentazione cartolinesca, per trasformare il paesaggio nella scena claustrofobica di uno scontro all’ultimo sangue da cui nessuno potrà salvarsi. Questa generosità autoriale finisce però col sovraccaricare il discorso di aspetti che non sempre trovano nell’insieme il tempo e il modo di essere sviluppati in tutta la loro potenzialità, così come per lo stesso motivo il registro della narrazione e della rappresentazione si perde talvolta in una zona grigia fra la tragedia, il melodramma e il noir, con un effetto di disorientamento che è altra cosa rispetto alla chiamata in causa dell’autonomia interpretante dello spettatore.