Tutto si può dire fuorché Carlo S. Hintermann sia uno che non pensa in grande. Al suo primo lungometraggio di finzione, dopo alcuni progetti che gli hanno permesso di avvicinarsi a Terrence Malick, il regista italo-svizzero sembra aver fatto di tutto pur di riuscire a far confluire interessi, suggestioni e modelli culturali (cinematografici e non) che evidentemente sono alla base della sua Weltanschauung umana e artistica. Piaccia o no, di una cosa bisogna dargli atto. Nel farlo non ha avuto paura di esporsi, quasi che The Book of Vision potesse rappresentare la sua prima e ultima grande occasione.
A cominciare dalla storia, che a qualcuno probabilmente farà venire in mente Darren Aronofsky e il suo The Fountain - L'albero della vita, le ambizioni di Hintermann sono smisurate. Il film, infatti, si snoda su due piani temporali distinti. Nonostante i tre secoli che li separano, però, finiranno per intrecciarsi e perfino sovrapporsi – proprio come suggeriscono le due “O” nel layout del titolo, la cui sintesi è rappresentata dalla stessa lettera in miniatura contenuta all'interno della porzione comune frutto della loro intersecazione. Da una parte abbiamo il mondo moderno e la sua eroina, il cui nome, guarda caso, è Eva, donna, ricercatrice e figura materna primigenia. Aspetta un bambino, ma le sue condizioni di salute la pongono di fronte a una scelta difficile. O lei o la nuova vita che porta in grembo. In Eva ritroviamo tutta la determinazione di dare un senso alla scienza moderna attraverso una nostalgica e romantica fascinazione per la medicina del passato e lo studio empirico del corpo umano, il cui approccio tattile è venuto meno mano a mano che l'evoluzione della tecnologia e l'avvento delle nanotecnologie ci hanno portato a perdere il contatto non solo col paziente, ma con con la materia stessa di cui è fatto. Per dirla con Cronenberg, con la sua “carne”. Non siamo più noi a entrare con le mani nel corpo umano, ma dei robot da noi manovrati.
A fare da collante con la storia passata c'è un libro misterioso, custodito nel centro di ricerca dove Eva, interpretata dalla tedesca Lotte Verbeek, ripara all'inizio del film. Si tratta di un antico manoscritto in unica copia scritto nel XVIII secolo dal luminare Johan Anmuth (Charles Dance) su implorazione di una giovane donna creduta pazza, al fine di dare voce alle paure, alle emozioni e ai sogni dei tantissimi casi clinici avuti in cura da Anmuth, e così facendo restituire le loro storie alla memoria collettiva dopo la morte. Nelle mani di Eva questo volume diventa un ponte temporale, il viatico per un'esperienza immersiva fatta di immedesimazioni in prima persona e Doppelganger, dove gli attori sono chiamati a interpretare sia i personaggi del tempo presente che quelli di trecento anni prima.
The Book of Vision non è però solo un dramma esistenziale e filosofico parzialmente in costume. Con un secondo cortocircuito che avviene nel tempo passato, Hintermann dà vita a un mondo visionario parallelo fatto di suggestive immagini arboree e antropomorfe, concretizzazione di quella creatività (o follia) che forse il troppo razionalismo del mondo moderno ha progressivamente cancellato per far posto all'industrializzazione e alla rivoluzione tecnologica.
Hintermann si è formato sotto l'egida spirituale di Malick, il quale figura come produttore esecutivo del film. Non solo a lui ha dedicato un paio di lavori precedenti. È stato anche suo stretto collaboratore durante la lavorazione di The Tree of Life. La sua ammirazione e devozione è tale che all'interno dell'appartamento dove Eva va ad abitare con il suo nuovo tutor e amante, non può passare inosservato un vecchio poster di La rabbia giovane, accanto a quello di La Jetée. E l'influenza di Malick si manifesta anche nella scelta di affidare a Jörg Widmer la fotografia del film, compresi i lirici movimenti di macchina in libertà, cifra stilistica che caratterizza i film del cineasta americano da oltre un decennio a questa parte. Con ciò non si vuole sminuire lo sforzo di Hintermann e del suo gruppo di lavoro. La sensazione generale, però, è che l'autorevolezza del maestro a lungo andare abbia preso troppo il sopravvento, soffocando sul nascere la voce e la personalità dell'allievo.