Rebecca Zlotowski dice di aver fatto il film che avrebbe voluto vedere. Si simple que ça. E in effetti Les Enfants des autres è un film che si vuole vedere, con la semplicità dell’abbandono a una narrazione che scorre fluida nel suo corrispondere alle emozioni della vita, e lo sguardo benevolo di chi passa sopra qualche vezzo formale (le iridi che si aprono e si chiudono a scandire i momenti che si succedono, qualche impacciata sovrimpressione).
Non è questo che conta, qui, perché la scrittura e la presenza scenica che si porta in dote Virginie Ephira fanno con piacere passare oltre. Così ci si ritrova dentro a un film solo in apparenza semplice, certo toccante, capace di offrire a tutti un buon motivo per commuoversi ed empatizzare, per riconoscersi in qualcuno dei pezzi di vita e di cuore di questa donna tutta sola che è Rachel.
Un ritratto femminile che ha il pregio di mettere al centro un personaggio complesso, mai tragico eppure drammaticamente reale, quotidiano, umano; una donna che cerca in fondo solo di stare bene e di fare quello che le corrisponde: amare, aiutare i suoi studenti a trovare una propria dimensione, essere amata e poi, dato che il tempo passa, magari avere un figlio. Non è però il racconto di un’ossessione ma di un umano desiderio di appartenere a qualcuno per essere più centrati su se stessi e di avere qualcuno che ci appartenga per essere completati. E non si tratta nemmeno di aderire a uno stereotipo, a un paradigma o a un modello di genere imposto, e neppure di rispondere banalmente a una presunta necessità biologica. È solo voler vivere e, magari, potendo, sentirsi bene.
Ma la vita non sempre asseconda i desideri e bisogna farci i conti. Ed è quello che fa Rachel cercando di avere quello che vuole, seguendo la passione, l’amore, il sentimento ma anche rimanendo razionale e sottraendosi, quando lo ritiene giusto, per buon senso, buon cuore o solo sensibilità. Non è facile tenere tutto in equilibrio e sopratutto non è facile accettare di non essere mai il centro. Questo vuole fare Zlotowski, riposizionare al centro un personaggio che sembra destinato - se cosi di può dire - alla gregarietà. Darle il suo spessore e il suo spazio legittimo è il modo che sceglie per dire che nessuno è secondario, è solo questione di punti di vista e di focalizzazioni. Anche per questo si passa sopra a qualche maldestro tentativo stilistico, perché in fondo quell’iride ha semplicemente lo scopo di andare a cercare anche nell’immagine la centralità che Rachel cerca senza reclamarla, desidera senza trasformarla in incubo, rincorre senza venir meno a se stessa. Solo con l’affanno di chi sa che il tempo passa e che è faticoso posizionarsi - “quando non si hanno più venticinque anni” - rispetto a quanto ci ha preceduto e ha preso il proprio spazio nel vissuto degli altri.
Un film si simple que ça, capace di dimostrare il percorso di crescita di una regista e sceneggiatrice che sembra essere riuscita a coniugare la sensibilità di racconto della tradizione borghese del conte sentimental con la lucidità dell'introspezione dell’universo femminile di certa New Hollywood.