Una figura maschile, di spalle, guarda in giù dalla cima di un palazzo. Guarda il brulichio della città, ma soprattutto osserva una donna che sta camminando e che la macchina da presa continua a seguire a distanza sempre più ravvicinata, finché non arriva alla sua meta: un hotel di architettura brutalista, risalente alla vecchia Jugoslavia, nel quale un’agenzia di incontri organizza ogni sabato degli speed dating programmati per anime solitarie in cerca dell’amore. Una maniera come un’altra per passare un sabato in compagnia, chiacchierare con qualcuno, pranzare, svagarsi, dice al momento della pausa pranzo un maturo habituée di quei meeting. Asja, la donna bionda con il vestito a fantasia sul verde che abbiamo pedinato all’inizio, ha quarant’anni, un buon lavoro, è single e ha scelto il suo partner dell’incontro tra le proposte dell’agenzia. In realtà, scopriamo che è stato lui a farsi scegliere: Zoran, più o meno coetaneo, camicia a fiori rosati, faccia smunta e interrogativa, una passione per Kurt Cobain, un flirt con l’idea del suicidio. Un’anima tormentata, che voleva a tutti i costi incontrare Asja, forse per chiedere perdono, per liberarsi del peso del ricordo del loro quasi-incontro nel 1993, durante l’assedio di Sarajevo, quando erano poco più che ragazzi.
The Happiest Man in the World mette una di fronte all’altra due persone accomunate da un trauma violento, inseriti in un ambiente asettico e circondate da una umanità varia, curiosa, chiacchierona, mai banale. Immersi in una quasi totale unità di tempo e di luogo, non ci si annoia mai, continuamente sollecitati dalla velocità dei dialoghi di Elma Tataragic (che insieme alla regista Teona Strugar Mitevska ha scritto la sceneggiatura basandosi su una propria esperienza personale) e dalla duttilità della macchina da presa, che nella prima parte del film passa veloce da un tavolo all’altro, dove le coppie variamente assortite rispondono più o meno onestamente alle domande che rivolge loro una voce registrata. Due “padrone di casa”, paludate in identici abiti zebrati, tengono viva l’atmosfera.
Ma quella che pare una commedia grottesca e corale piano piano si trasforma nella rievocazione dei drammi e dei danni di una guerra tra popoli uguali, e si avvicina sempre di più ad Asja e a Zoran, alla rivelazione dell’evento che li accomuna, alla rabbia, la frustrazione, il disprezzo, il senso di colpa, la vergogna. Storie di conflitti mai sopiti e di generazioni che continuano a pagarne i danni. Storie di uomini e di donne: Teona Strugar Mitevska, che nei suoi film precedenti si è concentrata spesso sul femminile (Io sono Titov Veles e Dio è donna e si chiama Petrunya) e talvolta sul maschile (il claustrofobico When the Day Had No Name), qui tiene la sua macchina da presa e la sua sensibilità equidistanti dai due protagonisti, mettendo in campo le ragioni e soprattutto le paure e le ossessioni di entrambi, la disperazione di lui (maschio guidato alla distruzione insensata e all’autodistruzione) e l’esasperazione stupefatta, la rabbia di lei, che è femminilmente allenata ad andare avanti, interrogando se stessa e gli altri, ma comunque vivendo. La commedia si fa sempre più cupa, più chiusa in un anfratto qualunque di una città, Sarajevo, sulla quale incombe un cimitero. Ma il tempo passa, e fuori un gruppo di giovanissimi balla per strada; ed è proprio in quel ballo che si perde Asja, quasi felice, quasi dimentica, quasi appagata, in una lunga sequenza che libera energia e vitalità.