Tentazione: quella di riportare a una dimensione laica l’esperienza pauperistica francescana è vecchia almeno quanto il cinema della modernità, dal Francesco di Rossellini a quello di Liliana Cavani, passando per Uccellacci e uccellini di Pasolini. Susanna Nicchiarelli, complice l’air du temps, si fa travolgere dalla tentazione di scrivere e girare un film sulla controparte femminile del poverello di Assisi, Chiara, di darle la giusta autonomia, di affrontarne l’identità, di esaltarne la modernità.
Una tentazione che gli storici di professione, quelli di orientamento marxista, hanno raccolto e sviluppato, restituendo una Chiara e un Francesco senza santa e santo davanti, il titulo non serve, i pensieri e le azioni parlano da soli, basta rileggere attentamente le fonti, capire dove la tradizione è stata incanalata, i documenti – quelli su carta ma anche quelli pittorici – sono stati interpolati, manomessi, riscritti. Chiara Frugoni, alla quale Susanna Nicchiarelli dedica il suo Chiara, ha consacrato una grande parte della sua carriera a illuminare questa stagione della storia, e a renderla accessibile anche ai lettori meno avvezzi.
Però, già nel tentativo di mettere in rilievo le scelte di Chiara degli Offreducci, Nicchiarelli glissa, dandolo per acquisito, su tutto quello che riguarda la creazione del nucleo francescano originario, la popolarità del pensiero di Francesco e il contesto che lo aveva visto fiorire e gradualmente accettato, e che attrasse irresistibilmente la giovane conterranea, quasi contraddicendo la modalità divulgativa accostante e limpida di Frugoni, che talvolta quasi si scusava: «Nelle prime pagine mancano le voci di Francesco e Chiara. Vorrei che i lettori non si spaventassero. A volte capita che a teatro il sipario si apra su una scena, per poco, silenziosa. Gli spettatori hanno cosi modo di osservare l'arredo e farsi un'idea, capire se l'azione si svolgerà ad esempio in un salotto o in un’osteria.». In Chiara, no, di arredo iniziale ce n’è poco, si comincia in medias res con la protagonista e l’amica Pacifica, ben vestite, che si avventurano nel bosco quasi come due adolescenti sgattaiolate di casa per andare a un rave, a una festa clandestina, spaventate dai versi mostruosi dei rapaci notturni: direzione Porziuncola. È un po’ qui l’assunto di Nicchiarelli: la parabola umana di una donna eccezionale che comincia con la fascinazione irresistibile per il pensiero di un uomo inarrivabile e poi cerca di crearsi un’autonomia, di ribellarsi alle convenzioni, alle costrizioni e alle prescrizioni del patriarcato e di Santa Madre Chiesa, di ripensare la vita monastica, in povertà e condivisione, una comunità, una comune. Ma l’uomo inarrivabile, Francesco, ha sullo schermo la fragilità un po’ malata di Andrea Carpenzano, la donna eccezionale ha l’aspetto fanciullesco unpo’ imbambolato di Margherita Mazzucco.
Più che altro, la Chiara messa in scena da Nicchiarelli ha l’attitudine, molto moderna, fin troppo, di guardare sempre avanti, in direzione ostinata e contraria nella propria richiesta di una parità di trattamento per sé e le sorelle, e nel chiedere a Gregorio IX (un Luigi Lo Cascio particolarmente sordido) di poter scrivere (come farà effettivamente) una regola tutta sua, che infatti verra riconosciuta “ad personas”, cioè solo per lei e il nucleo originale dell’ordine. Non c’è spazio per il dubbio, per la crisi. Non ce n’è per le tentazioni. Salvo, forse, quella di indugiare, secondo una tradizione che è più cinematografica che storica, sul desiderio impossibile di Chiara per Francesco: essere con lui, per lui o al posto suo? Desiderare o sognare di essere l’altro, o l’altra, come nelle scene oniriche ispirate all’iconografia sacra, quando la giovane si immagina come santa Scolastica accanto a Benedetto, come in un dossale alla Duccio o alla Simone Martini, o quando si vede come Madonna col bambino in una grotta, sempre col bel nimbo d’oro, rigido come un laserdisc, sulla testa. In queste trasfigurazioni ieratiche, pittoriche, prende piede il difetto di quel guardare costantemente avanti della Chiara di Nicchiarelli, e non è un problema di hybris teologica, non del tutto: lo sguardo in macchina, l’interpellazione verso il riguardante, verso lo spettatore, che proprio nella pittura ha una radice importante, diventa uno sguardo reiterato, abusato, ridondante nel suo tentativo di implicarci in una lettura moderna del personaggio. Ridondante soprattutto rispetto a un film che non ha ben deciso come condurre, sul piano dello stile, il racconto. Tra una scena convenzionalmente filmata dalla fedele Crystel Fournier e l’altra, si canta, si balla, si mettono in immagine miracoli involontari e momenti chiave dell’Ordine come se fossero miniature del duecento o scomparti degli affreschi di Assisi. Ma è una insalata di stili che dà più il senso di uno smarrimento che di una determinazione.
E viene la tentazione di scriverlo nero su bianco, scavalcando i classici, i Bresson, i Rohmer, gli Olmi che il medioevo (o la sua fine) l’hanno portato sullo schermo con una determinazione stilistica rigorosa e studiata: la folle modernità della Giovanna d’Arco, Jeannette, Jeanne, di Bruno Dumont è un modello così vicino, ma così lontano. Lontano dagli orizzonti di Chiara, dai costumi belli e spesso anacronistici di Massimo Cantini Parrini, che ci mette tutto l’impegno possibile, ma la stoffa letteralmente non sembra più quella di Danilo Donati; lontano dalla lingua umbra ricostruita con filologia letteralmente degna di miglior causa, calata in abbazie e spazi generosamente aperti dal MIC, ma che portano i segni contraddittori di altre filologie; lontano dai tamburelli dell’Anonima Frottolisti, e soprattutto dalla canzon(cina) di Cosmo messa sull’ennesimo sguardo in macchina, così, a spregio, alla faccia di voi (noi) borghesi.