Non perdete From the main square di Pedro Harres, se vi chiedete fino a che punto la VR si integrerà con i “vecchi” media, se sostituirà il cinema, ne proseguirà la storia o si legherà piuttosto all’ambito del gaming e dei social. Il regista brasiliano e la squadra degli ideatori (la disegnatrice, la sceneggiatrice, la produttrice) esplorano con intelligenza le radici cinematografiche del nuovo medium, arrivando a un’opera che delizia per complessità, eleganza e capacità di sviluppare un discorso politico tanto profondo quanto antiretorico.
Indossiamo il casco e ci troviamo proprio al centro della piazza di un villaggio immaginario in stile sudamericano; forse siamo la statua o la fontana che di solito si trovano in quella posizione, una statua animata che oltre a ruotare su se stessa può usare due strumenti essenziali per esplorare il cangiante paesaggio circostante. Con un press sul controller sinistro facciamo apparire una lente di ingrandimento da rivolgere sul particolare che desideriamo ingrandire, con un pull del destro schiocchiamo le dita e il gesto attiva le scene a cui miriamo. In questo modo possiamo immergerci pienamente nel mondo virtuale a 360° che prende forma davanti ai nostri occhi.
Gruppi di uomini abbattono le palme qua e là dopo di che, mattone dopo mattone, vari edifici sorgono per il lavoro degli operai, via via automatizzato dalle gru e appesantito dai martelli pneumatici; ma in mezzo a questa modernità selvaggia che ci invade scorgiamo ancora gruppi di adoratori di antiche divinità indigene: uomini incappucciati si inginocchiano sotto il totem di un gigantesco varano di Komodo che ha in bocca una stella cometa, mentre un signore fischiettante passa in biciletta, un grande prefabbricato sorge dal nulla e si popola: le finestre si illuminano e qualcuno si affaccia sulla strada. Senza soluzione di continuità, raggiunta la saturazione questo mondo comincia a sgretolarsi per effetto di continui e sistematici atti di violenza. C’è chi dà fuoco a un senzatetto che dorme su una panchina, chi spara dalla finestra, chi prende parte a un’esecuzione sulle colline, finché una parata militare entra in città e arrivano le prime bombe. Meglio non descrivere con troppa precisione tutto quello che accade nelle numerose scene distribuite sul paesaggio, perché il piacere consiste proprio nello scoprirle, andarle a cercare e montarle nel “film” che ciascuno di noi compone mentalmente, creando una sequenza propria. In questo senso From the main square è un film virtuale nell’accezione più esatta della parola: un film in potenza, antilineare e ramificato che l’experiencer crea con il proprio sguardo. Contro la formula delle alternative narrative tipica dei videogame, Harres sperimenta sulle diverse possibilità di focalizzazione e montaggio, in sé imprevedibili e autenticamente aperte. Lo schiocco delle nostre dita è un 'ciak si gira' che avvia la recitazione degli “attori” (disegni stilizzati pieni di ironia), mentre l’uso della lente di ingrandimento rimanda all’archeologia del cinema, e in particolare del primo piano filmico – sappiamo che il close up rappresenta la prima virtualizzazione di un gesto della spettatrice di teatro, che dalla platea di tanto in tanto si “avvicinava” con il binocolo ai volti dei suoi attori preferiti.
La complessa orchestrazione del racconto rende particolarmente evidente la questione dell’autorialità nel VR: ad Harres certamente dobbiamo attribuire questo universo radicato nella sua cultura di origine, nonché il discorso politico di fondo, ma la struttura dell’opera nasce dall’integrazione progressiva di scrittura, disegno e regia, un’integrazione di gran lunga superiore a quella richiesta dal cinema. Il progetto sfida lo storytelling tradizionale anche perché privo di dialoghi e voci narranti; richiede due livelli di “sceneggiatura”, ovvero la descrizione delle microazioni (peraltro tratte da episodi di cronaca), e la costruzione di due ritmi intrecciati, il primo generale di apparizione dei personaggi e il secondo specifico di “attivazione” del loro agire. Come dichiara la sceneggiatrice, Angelina Urbanczyk, le scene sono state scritte una prima volta, poi ritoccate in relazione ai disegni che le interpretavano, e di nuovo rimaneggiate in rapporto al ritmo e all’architettura complessiva concepita dal regista.
Uno dei criteri di giudizio più sensati per chi comincia ad occuparsi di critica delle XR, è se ci sia un legame di necessità fra l’uso delle nuove tecnologie e il senso del lavoro proposto. In questo caso la scelta del 360° interattivo è pienamente motivata dalla valenza politica dell’opera: Harres mette l’experiencer in una posizione di responsabilità testimoniale, lo/la invita a guardare qualcosa che lei stessa ha avviato, e dato l’esito del processo,sensibilizza all’alba del nuovo ciclo. Lo sguardo dalla piazza non è sorveglianza nell’oscurità e coercizione del vedere, ma continua risposta a varie forme di interpellazione, soprattutto sonore. Anche per questo il 360° di From the main square si lega alla genealogia, più panoramatica che panottica, di un certo cinema sperimentale (ad esempio le inquadrature-arazzo dei film di Otar Iosseliani, di cui sembra condividere anche lo spirito). Ottimo punto di partenza per riflettere su questa baby art e le sue potenzialità estetiche, l’opera di Harres è un 360° anomalo che fa un passo indietro per guardare avanti.