Il cinema di Darren Aronofsky ha sempre avuto come fulcro centrale il corpo, in tutte le sue forme variegate e in tutti i suoi limiti. L’annichilimento dei corpi e l’esaltazione della fisicità dei protagonisti di The Wrestler e de Il cigno nero rappresentano forse l’esempio più lampante in questo senso; ma anche le immagini del cranio trapanato sul finale di π - Il teorema del delirio o i corpi devastati di Requiem for a Dream e di madre! sono decisamente esplicativi delle ossessioni visive e tematiche del regista.
E certamente anche i 270kg che Brendan Fraser - prima ingrassato e poi avvolto dalle protesi - si trascina dietro in The Whale rappresentano una naturale prosecuzione di questo discorso. È un’immagine, quella del protagonista del film, probabilmente tra le più scioccanti e incisive della carriera di Aronofsky. La storia è quella di un insegnante inglese affetto da una grave forma di obesità che, quando capisce di avere ancora poco da vivere, cerca di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente per un’ultima possibilità di redenzione. Anche in questo caso, il regista newyorkese adatta il proprio stile al racconto, abbandonando la camera a mano del dittico sul wrestler e la ballerina e i virtuosismi di madre! per una regia calibratissima e rigorosa: una camera a mano che fluttua per l’appartamento come fosse mossa dalle onde emotive e un 4:3 che fatica a contenere la mole del professore e che cancella dall’inquadratura ogni via di fuga.
Eppure, nonostante la potenza visiva della fisicità che ha a disposizione in The Whale, Aronofsky sceglie di presentare allo spettatore il proprio protagonista attraverso il riquadro nero di una videochat con la videocamera spenta. Il professore sta tenendo una lezione ai propri studenti sull’importanza dell’essere autentici e dello sviluppare un pensiero critico sulle cose. Anche se è lampante come lui per primo decida di non mostrarsi in pubblico per quello che è perché prova vergogna per il proprio corpo. Ecco quindi che se nei personaggi messi in scena precedentemente dal regista il corpo era sì un peso, ma anche l’unico mezzo per poter raggiungere il proprio scopo, in questo caso la fisicità rappresenta - letteralmente - un peso insostenibile da sopportare. È una prigione da cui scappare per liberare il proprio spirito.
È per questo motivo che il personaggio interpretato da Brendan Fraser accetta di buon grado la propria condanna a morte, convinto dell’importanza di poter dare un senso alla propria esistenza attraverso un ultimo atto d’amore. In quest’ottica The Whale inizia dove finiva The Fountain - L’albero della vita: anche lì veniva raccontato un percorso spirituale dove il corpo umano e tutti i suoi limiti venivano abbandonati, decretandone la fine materiale, per entrare a far parte di un (intangibile) universo dominato dall’anima e dalla mente. Distruggere il proprio corpo diventa in questo caso l’unica possibilità per distruggere anche il fardello delle scelte difficili, la ferocia del giudizio altrui e le costrizioni di una società incapace di includere tutti.
E così quell’ingresso nella storia attraverso uno schermo nero diventa forse l’immagine più potente di tutto il film. Quella che, nella sua semplicità, riesce ad allargare e a universalizzare il discorso rendendolo al contempo anche incredibilmente legato alla contemporaneità dell’America (e non solo). Un mondo dove essere ottimisti e provare a fare del bene e a stare bene attraverso il contatto umano diventa l’unica ancora di salvezza possibile; l’unico modo per sentirsi, finalmente, leggeri.