Broken English di Iain Forsyth e Jane Pollard

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«Nonostante tutte queste persone stupide e tutte le loro stupide domande, in realtà io ho avuto una vita piuttosto bella; perciò, si fottano». Parole di una signora elegante, per lo più sorridente, a volte seria, a volte pungente, quasi arrabbiata, più spesso commossa: in camicia bianca, giacca e cravatta nere, caschetto biondo corto impeccabile, quegli occhi azzurri e trasparenti che sanno socchiudersi in uno sguardo indagatore, con le cannule dell’ossigeno che le salgono al naso, Marianne Faithfull si offre con intelligenza acuta, arguzia impagabile e infinita sensibilità a quella che è poi stata la sua ultima intervista, la sua ultima apparizione e la sua ultima registrazione canora, protagonista di Broken English, il bel documentario realizzato da Iain Forsyth e Jane Pollard (autori di 20.000 Days on Earth, con Nick Cave) e terminato poco prima della morte della protagonista, avvenuta nel gennaio di quest’anno.

Grande Marianne, rotondissima e ancora segnata dai postumi del Covid che l’aveva colpita in modo grave nel 2020 e si era portato via il produttore musicale Hal Wilmer, scruta nella propria vita e nella nostra cultura, nel mondo com’è stato intorno a lei, con una lucidità totalmente priva di imbarazzi, con curiosità quasi, sfogliando con noi le tante immagini di repertorio raccolte da tv, giornali e film, quelle degli album di ritagli collezionati a sua insaputa da suo padre, e le note, le sonorità, le emozioni che ancora le sue canzoni trasmettono, interpretate da lei o da altre artiste eccellenti quali Joan Baez (in una storica registrazione di As Tears Go By), Beth Orton, Suki Wagterhouse e Courtney Love (magnifica, acida in Times Square). Non rimpiange niente, ha uno sguardo acceso su tutto e tutti, se stessa compresa. Non dimentica certamente le tante persone stupide che le fecero domande stupide sui giornali e in tv durante e dopo gli anni infuocati della sua carriera, quando era riconosciuta solo come una delle muse (poco più che groupies) dei Rolling Stones, lei e Anita Pallenberg, le ragazze bellissime che si consumavano nella Swinging London, a fianco degli acidissimi, bruciatissimi, diabolici Stones, Pallenberg compagna di Keith Richards, Faithfull fidanzata di Mick Jagger (ma per un attimo anche amante di Richards), tra droghe, scandali, provocazioni. Male e raramente riconosciute come artiste, anche dai loro compagni. Tra il 1964 del suo singolo d’esordio (As Tears Go By) e il declino decennale dei primi 70 dopo la separazione da Jagger, Faithfull aveva pubblicato sei album e moltissimi singoli e recitato in almeno sei film, compresa la sua tenerissima, straziante Ofelia nell’Amleto cinematografico e teatrale di Tony Richardson. Nella sua vita, dal grande ritorno di fine anni 70 con la voce arrochita e la canzone-capolavoro Broken English, gli album sono diventati 35 e i ruoli almeno una quarantina, comprese le due impressionanti interpretazioni di Jenny dei pirati nell’Opera da tre soldi di Brecht e Anna nei Sette peccati capitali di Kurt Weill.

Il film di Forsyth/Pollard (e Faithfull, perché l’artista ci si è buttata anima e corpo e va annoverata tra gli “autori”) ristabilisce gli equilibri di genere, interpellando una vera e propria tavola rotonda di signore intellettuali, parlando con musicisti e cantanti di entrambi i sessi, e racchiudendo tutto in una bizzarra cornice molto british e molto più che vagamente orwelliana: il Ministero della Non Dimenticanza, dove un Supervisore in camicia, gilet e cravatta impeccabili e il solito ardito taglio di capelli (Tilda Swinton, chi se non lei?) ordina a un Custode degli archivi interpretato da George McKay di iniziare il loro lavoro proprio da Marianne Faithfull. E, se Swinton è il più rigoroso dei grandi occhi che scrutano il passato (tale è il simbolo inquietante del Ministero), McKay è il più disponibile e aggraziato degli intervistatori, capace di stabilire un’alchimia perfetta con Faithfull, perfetta signora ancora irridente che ricorda quasi tutto; o forse qualcosa ha dimenticato ma, come dice il Supervisore Swinton «dimenticare è utile; libera spazio per altre cose importanti da ricordare».

Percorso dalle figure evanescenti del giovane Bob Dylan (a Londra nel 1965 con Joan Baez), di Allen Ginsbergh e Gregory Corso, degli Stones e di Pallenberg, e da quelle concrete e vicine del primo marito John Dunbar (in un incontro molto tenero nella stanza in cui si registra l’intervista), di Edith Bowman, Sophie Fiennes, Sienna Guillory e Natasha Khan (che dibattono sull’importanza che ha avuto per loro una figura ribelle come quella di Faithfull), Broken English ci invita a capire, a poco a poco, come quella che fu definita la prima rock chick (la prima “pollastrella del rock”) sia invece sempre stata un’intellettuale raffinata, un indomabile spirito libero, un vero e proprio “agente del caos”. E Marianne ride e sorride, con infinita pazienza oggi e con occhi che osservano acuminati il passato, con amore per quello che ha fatto e sta ancora facendo: nel piccolo studio, insieme agli amici musicisti Nick Cave, Warren Ellis e Rob Ellis, la registrazione finale di Misunderstanding (dal suo album del 2018 Negative Capability), con la sua voce ancora più segnata dalla malattia, riempie di commozione e di ammirazione.