Nel debutto in solitaria di Benny Safdie ci sono tre ingredienti che lasciavano presagire che The Smashing Machine sarebbe stato un intenso ed emozionante dramma sportivo, con caduta, rinascita e american dream: una storia, quella della leggenda delle arti marziali miste Mark Kerr; un genere, il film sportivo, appunto, e un corpo, quello monumentale di Dwayne “The Rock” Johnson. E in effetti anche la struttura narrativa sembra confermare questa sensazione: allenamenti, rituali, incontri, la grande sfida per il titolo, la caduta e la possibile rivincita. Tutto materiale che avrebbe potuto sposarsi alla perfezione con lo stile elettrico che aveva contraddistinto finora la filmografia dei fratelli Safdie. Eppure, mentre scorrono le immagini sullo schermo, ci si accorge che in The Smashing Machine c’è qualcosa di diverso e atipico. È un film semplice, che predilige i piccoli gesti quotidiani all’adrenalina e in cui i momenti trionfali cedono il posto alle sconfitte.
Mark Kerr è un lottatore che sogna di non perdere mai, di poter dominare e sovrastare tutti gli avversari. Che prova in tutti i modi a rimuovere il dolore, ad anestetizzare la propria quotidianità dentro e fuori dal ring per nutrirsi esclusivamente del calore del proprio pubblico e dell’energia galvanizzante della vittoria. Benny Safdie però evita tanto la spettacolarità degli incontri quanto la malinconica dinamica autodistruttiva di The Wrestler, scegliendo invece di riportare il proprio racconto a una dimensione più umana e fragile. Come mostra una toccante sequenza al luna park, Dwayne Johnson interpreta un gigante che impara che è normale avere paura di salire su una giostra che sembra andare troppo veloce.
The Smashing Machine lavora con assoluta precisione sui tempi del racconto, passando veloce sui combattimenti per concentrarsi meglio sulle cicatrici, sulle lacrime e sulle fragilità di un corpo gigantesco che si rivela improvvisamente indifeso. E nel fare questo conduce lo spettatore attraverso un ragionamento sull’importanza dell’accettazione di sé, senza bisogno di dover costruire scene madri, climax narrativi o passaggi urlati. Muovendosi in un mondo fatto principalmente di corpi perfetti e vincenti, la macchina da presa normalizza il dolore e la caduta come parte della vita. E nel momento in cui Kerr, tra relazioni tossiche, antidolorifici e sconfitte, fatica a tenere assieme i propri pezzi, Safdie decide di ripararlo seguendo l’arte del kintsugi, esaltando e valorizzando quelle ferite che lo rendono semplicemente umano.