Concorso

A House of Dynamite di Kathryn Bigelow

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È una mattina come tante in America. Ed è una mattina come tante anche nelle varie agenzie di difesa – tante, ognuna nascosta dietro un acronimo diverso – dove gli ufficiali preposti si suppone veglino sulla sicurezza della nazione. E in quella mattina come tante, in una base militare persa chissà dove, su uno schermo appare la traccia di un missile nucleare. A prima vista potrebbe essere un’esercitazione non dichiarata a cui non dare troppo peso, un innocuo colpo di testa di una delle ormai numerose potenze dotate di un arsenale militare. Si cerca di sbrogliare la matassa mentre si sorseggiano caffè o si commentano le gesta di qualche giocatore di baseball nella partita della sera prima. Presto però la serenità apparente si raggela: l’arma è diretta sul territorio americano. Partono le ipotesi, le proiezioni, le congetture finché i computer rivelano che l’obiettivo è Chicago.

Quella mattina come tante potrebbe essere l’inizio di una nuova guerra nucleare. Bisogna prendere delle decisioni e bisogna prenderle in una manciata di minuti, soprattutto dopo che il tentativo di abbattere il missile, unica speranza di soluzione indolore, fallisce miseramente. E allora, nel puzzle di una videochiamata di gruppo – così simile a quelle che abbiamo imparato a conoscere negli anni di lavoro a distanza post-pandemico – si accavallano le decisioni, si stabilisce la catena di comando, si tenta di dedurre informazioni e di formulare ipotesi sensate, di non brancolare nel buio, di fermare quel senso di impotenza che atterrisce sempre più funzionari e militari, politici e strateghi, in attesa dell’intervento del Presidente, impegnato in un pubblico incontro e improvvisamente informato dei fatti all’ultimo momento, come il George W. Bush durante l’11 settembre. Bisogna accettare il rischio dell’olocausto di Chicago – una prospettiva di dieci milioni di vittime, vita più vita meno – o si deve reagire basandosi su congetture, identificando l’attacco di un nemico potenziale ma solo supposto? Sarà la Corea del Nord? La Cina? La Russia?

Il nuovo film di Kathryn Bigelow, otto anni dopo il troppo velocemente dimenticato Detroit, si riassume nel suo titolo: A House of Dynamite. In un mondo sempre più armato – e con armi capaci di radere al suolo una città in una manciata di minuti – è diventato impossibile riconoscere il nemico. Rispetto ai classici serissimi – A prova di errore di Sydney Lumet – o farseschi – Il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick – degli anni della Guerra Fredda, il crollo dei blocchi contrapposti ha generato una completa indeterminatezza del possibile nemico, tangibile ma non identificabile al tempo stesso. E l’immanenza della catastrofe si rispecchia nell’impotenza dei personaggi, divisi tra rovelli personali e salvezza pubblica.

Bigelow dilata quei diciotto minuti che separano gli Stati Uniti dal baratro, li moltiplica frammentando i punti di vista; ci mostra il brulicare di uomini e donne che si affannano davanti a schermi, monitor, computer, telefoni quasi osservando il disastro in arrivo. Non è banalmente “muscolare” nella sua messa in scena – critica abusata del suo stile nervoso – quanto perfettamente aderente al tono e al ritmo della storia che racconta. A House of Dynamite – come lo erano The Hurt Locker, Zero Dark Thirty e Detroit – utilizza la tensione del miglior cinema action per costruire un film profondamente politico e fortemente contemporaneo, disperatamente cupo.

In un mondo al collasso, del resto, il “nemico” è un’entità dai contorni indefiniti, l’apocalisse sembra generata dal caso e il sogno di un mondo di pace può essere messo in discussione da un puntino luminoso che si muove su un monitor che nessuno sa come fermare.