Concorso

La Grazia di Paolo Sorrentino

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Perchè La Grazia di Paolo Sorrentino si chiama così? Per due motivi (e una constatazione che aggiungiamo noi). La Grazia è quella di scarcerazione di due detenuti assassini che il Presidente della Repubblica Mariano De Sanctis, insigne docente di diritto penale tra l'altro, deve decidere se concedere proprio mentre inizia il periodo delicato del semestre bianco, alla vigilia cioè del suo fine mandato. La Grazia poi, come si dice quasi a fine film, è “la bellezza del dubbio”, quello su cui l'integerrimo politico si arrovella in cerca della verità e di risposte. Gli dice scuotendo il capo l'amico generale degli alpini: “Diritto e Disciplina avrebbero dovuto liberarci dall'incombenza della sensibilità”.

La Grazia infine è quella che pervade questo film, fatto di questioni morali e tensioni che dall'esistenziale personale trasmigrano verso il metafisico, eppur straordinariamente leggero nella sua compostezza, proprio come se puntasse a quella assenza di gravità non per caso evocata dalle immagini di un astronauta (desiderio alfin esplicitato).

Tra le stanze austere della sua residenza ufficiale, l'altrettanto austero personaggio (soprannominato “cemento armato” ma lui lo scoprirà poi: come dice la figlia “lui non parla, confessa”) prende il suo tempo tra tanti interrogativi di impervia soluzione e soprattutto la nostalgia lancinante per la moglie scomparsa 8 anni prima: “Aurora, la vita senza di te ha smesso di appassionarmi”, “Aurora, io quando ricordo, muoio”, cui non sa perdonare peraltro il tradimento compiuto addirittura 40 anni prima, quindi ben oltre la “prescrizione”, e ancora ingelosito va cercando il nome del traditore.

La figlia Dorotea (nome allusivo e la interpreta con intensità Anna Ferzetti) si prende cura di lui, della sua salute (anche se lui pur con un polmone solo sfumacchia di straforo) e soprattutto delle leggi che dovrebbe firmare, riscrivendo, limando, correggendo. Tra queste poi ce n'è una fondamentale, quella sull'eutanasia. Che farà il politico noto per la sua capacita di temporeggiare e lavorar di compromessi? Il Papa suo amico (straordinaria figura di africano con tanto di accento francese, dai capelli rasta e che si aggira in moto) ovviamente non vorrebbe che autorizzasse l'iter di approvazione, molti suoi amici invece sì, compresa la figlia (c'è anche un figlio che compone musica leggera ma lontano, a Montreal) che anzi al culmine di una discussione al riguardo gli pone un'altra di quelle domande che farebbero vacillare qualunque “cemento armato”: “Di chi sono i nostri giorni?”.

Tra una inopinata passione per la musica rap, una lunga, “significativa” e crudele agonia del cavallo Elvis, dialoghi illuminanti con collaboratori fedeli e devoti, visite irrituali in carcere a sondare di persona la verità e i candidati alla Grazia (uno lui, uno la figlia), alla fine troverà la forza di sciogliere almeno la sua compostezza, scegliere e farsi, in assenza di risposte, almeno le domande giuste.

Temporalmente vicino a Parthenope ma lontanissimo per felicità di tocco e padronanza del quadro d'insieme, La Grazia si potrebbe definire un thriller sulla morale e sul sentimento amoroso che il regista tiene e sviluppa come nelle sue opere più felici, grazie anche a un magistrale Toni Servillo che lavora sugli sguardi e sui toni di una recitazione mai urlata ed espressiva persino quando è inquadrato di spalle.

Comunque non preoccupatevi, il film è sorrentiniano al cento per cento, con le digressioni tra rock, trance e elettronica, più l'incongruo surrealististico di gag narrative e visuali tra il gratuito e l'ipermoderno. La Grazia è un grande film che abbonda di una sagace ma empatica ironia che non viene mai meno se non quando il film decide di allargarsi alla commozione.