È difficile giungere alla fine de Gli occhi di Tammy Faye e non avere la palpabile impressione di aver assistito a un’occasione, se non del tutto, almeno parzialmente sprecata. Eppure l’argomento trattato era fin troppo ghiotto, se solo la sceneggiatura del tv serial producer Abe Sylvia avesse avuto il coraggio di non restare alla superficie delle cose e la regia di Michael Showalter (The Big Sick) fosse stata un po’ più che solo diligente. La storia di Tammy Faye e Jim Bakker, telepredicatori dal vastissimo pubblico, precipitati in uno scandalo morale e finanziario alla fine degli anni Ottanta, era già stata portata sullo schermo nel ’90 in un’innocua versione per la televisione interpretata da Kevin Spacey (Il finanziere di Dio, regia di Karen Arthur per la NBC), per poi ricomparire dieci anni dopo sotto forma di documentario, per rinfrescare la memoria su un caso che all’epoca fece scalpore. È da questo stesso documentario dall’identico titolo (The Eyes of Tammy Faye, diretto da Fenton Bailey e Randy Barbato) che prende le mosse la versione attuale, fortemente voluta da Jessica Chastain, innamoratasi della vicenda al punto da produrla e interpretarla.
L’adattamento fiction compie una scelta chiara fin dall’inizio. Pur ricostruendo con toni piuttosto prevedibili la vicenda umana e televisiva della coppia, attraverso la consueta struttura fatta di fortunata ascesa e irrimediabile caduta, che tanto piace e da cui ben difficilmente ci si discosta, il film si concentra principalmente sul personaggio di Tammy Faye per evidenziare la prova attoriale della Chastain, comunque enorme, al netto del trucco, delle protesi deformanti e dell’ausilio digitale. La parabola dei coniugi Bakker, il loro connubio dedicato alla diffusione televisiva della dottrina cristiana, il proselitismo e il lusso kitsch, nella convinzione che “Dio non li vuole poveri”, l’ipocrisia e la rivalità corporativa, avrebbero offerto il pretesto per approfondire una serie di incongruenze presenti nella cultura religiosa americana invece soltanto delineate con il valore di indicazione. Così com’è narrato, con la sua regia attenta ma didascalica, con quel suo procedere incalzante e variopinto che ricorda la ricostruzione cronachistica di Tonya pur non avendone la stessa perfida vocazione tragica, Gli occhi di Tammy Faye può risultare curioso e interessante, ma solo per il pubblico non-americano, che il fenomeno lo conosce de relato grazie a qualche articolo di costume letto su una testata o a un podcast trovato per caso. Chi invece il fenomeno delle emittenti cristiane lo incontra costantemente facendo zapping e lo vive come uno degli aspetti maggiormente controversi di una spiritualità esasperata che nasconde avidità e teoconservatorismo, non può certo pensare a questo lavoro come a un film coraggioso e compiuto. E infatti, tranne rare eccezioni, alla critica americana il film non è piaciuto.
Il problema della destra evangelica e del suo potere sulle masse, rappresentato nel film da un celebre personaggio come Jerry Falwell (Vincent D’Onofrio, misurato ma gigantesco), con le sue posizioni aggressivamente reazionarie su gay, aborto e islam e il peso non indifferente esercitato nell’elezione di Ronald Reagan, si risolve in una battuta di dialogo, quando il suo più vasto riflesso sulla moltitudine repubblicana anche in tempi recentissimi avrebbe legittimato la scelta di trasporre il documentario del 2000 nella fiction di adesso. Invece il film decide di giocare sul personaggio femminile, sull’iperbole del suo corpo e sulla duplice metafora degli occhi, fondamentali fin dalla centralità del titolo. Gli occhi bistrati sparati sullo schermo in apertura di film alludono, infatti, a un duplice percorso di lettura, perché, da un lato, sono il diaframma con cui Tammy si presenta al mondo, ai fedeli, ai suoi telespettatori, allo stesso Jim, suo marito, ossia l’immagine di inappuntabile moralità con cui è percepita, nascosta dietro una fragile umanità che punta all’accettazione, dapprima come figlia e poi come donna in un universo esclusivamente maschile. Mai davvero se stessa in un mondo edificato da e per gli uomini, in cui le donne ricoprono una funzione ancillare, si muovono seminascoste (la Tammy burattinaia all’inizio della carriera) e approdano al loro livello (che in questo caso è un tavolo di discussione) solo con un colpo di coda visto con sospetto e fastidio.
Dall’altro lato, gli occhi di Tammy introducono un aspetto più sottile, la sua cecità rispetto a un’esistenza fatta di sorrisi benevoli, entusiasmo fideistico, traffici occulti, sessuofobia e ingerenze politiche. Tammy è vista da trenta milioni di telespettatori ma vede con difficoltà, come le imputa la madre in diverse occasioni e come lei stessa sottolinea al termine del funerale della stessa madre inforcando finalmente un paio di occhiali, quando ormai è troppo tardi per guardare e percepire davvero. E a quel punto val bene la pena di continuare a vedere sfocato, come nell’ultima scena di sapore altmaniano, in cui la sfocatura sui margini esterni dell’inquadratura è il limite dell’illusione di una donna che non ha mai davvero voluto vedere ciò che la circondava.
"Gli occhi di Tammy Faye" racconta la straordinaria storia dell’ascesa, della caduta e della redenzione della telepredicatrice Tammy Faye Bakker. Fra gli anni Settanta e Ottanta, Tammy Faye e suo marito Jim Bakker, entrambi di umili origini, riuscirono a creare il più grande network televisivo religioso al mondo e un parco a tema. Celebre per il suo messaggio di amore, accettazione e prosperità, Tammy Faye divenne una leggenda per le sue ciglia, per il suo particolare modo di cantare e per il suo desiderio di raggiungere persone di tutte le estrazioni sociali. Tuttavia, non passò molto tempo prima che irregolarità finanziarie, rivalità e scandali demolirono l'impero che i due avevano così accuratamente costruito.