A raccontarlo, volendo ci si mette poco. Due adolescenti, Seydou e Moussa, lasciano Dakar, in Senegal, alla volta dell'Italia. Lo fanno di nascosto, un po' incauti un po' sognatori un po' ridendo, spintonandosi l'un l'altro, come del resto sono e fanno i ragazzi a quell'età, a qualunque latitudine, con in mente il calcio e la musica (scrivono canzoni pensando al successo internazionale). Con un mucchietto di soldi raggranellati che non basteranno e stinte magliette di squadre di calcio (Barcellona, Real Madrid), ignorando il diniego deciso della madre di Seydou («Devi rimanere a respirare l'aria che respiro io») e gli irosi tentativi di dissuasione di chi quel viaggio l'ha fatto e vi ha fatto infelice ritorno («Quello che vedete e quello che sentite non è la realtà»), i due partono, inizialmente con l'entusiasmo incosciente dei pionieri. Ma Mali, Libia, mare Mediterraneo saranno soprattutto le tappe di un tragitto a capitoli quasi tutti dolorosi, tra soprusi, violenze, sete, fame, schiavismo, ferite, sfruttamento, in un percorso dove si può morire a ogni svolta e si finisce magari come corpi dimenticati lungo il cammino della speranza.
Messa così sembra la classica confezione, prevista e ormai un po' abusata, della cinematografia più sensibile e buonista, calibrata per muovere pietà e indignazione. Matteo Garrone però evita la didascalia di denuncia e il patetico grossolano e ne trae piuttosto un racconto persino solare, luccicante di speranza, commovente solidarietà tra disperati e bisogno di futuro, quasi un classico e avventuroso racconto di formazione, dalla sventatezza alla maturità, sino alla prima assunzione di consapevolezza. Se la sceneggiatura (firmata da Garrone, Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e Massimo Ceccherini, proprio lui, il comico!) appare curata e ben strutturata nel suo percorso a stazioni (come del resto lo è tutta la filmografia Garroniana), le ambientazioni sono di un colorato realismo di sensuale visione, ma soprattutto si coglie il piacere evidente del regista romano nei confronti del colpo di scena magico che sposta improvvisamente i piani della lettura (corpi che vincono la forza di gravità, esseri fantastici, stregoni che ci azzeccano), sino a suggerire una dimensione trascendente di favola contemporanea. D'altra parte, tutta l'effervescente filmografia di Garrone rimbalza tra i due estremi di un realismo a volte anche acre, plumbeo, magari di argomento criminale e le suggestioni gioiose della meraviglia e della fantasia: da Terra di mezzo, 1996, al Pinocchio terragno e umoroso del 2019.
Girato in dialetto wolof (del Senegal) e in francese, Io capitano (il titolo si spiega con l'ultima parte del film – che qui non raccontiamo – comunque un'impresa eroica e quasi trasfiguratrice: «Va tutto bene, nessuno morirà») gode felicemente della luce africana che Paolo Carnera raccoglie e filtra in immagini di grande vitalità (il più interessante cinema italiano degli ultimi anni molto gli deve, da Virzì a Sollima, dai D'Innocenzo a Martone) e fascino (la piattaforma petrolifera silenziosa e tutta luci in mezzo al nero mare notturno è un'apparizione fantastica), mentre alle musiche di Andrea Farri si aggiungono le voci e le qualità musicali dei due protagonisti, Seydou Sarr e Moustapha Fall e le chitarrate elettriche alla tuareg rock sono dei lampi che tagliano i panorami africani con struggente intensità.
Due ragazzi senegalesi, Seydou e Moussa, lasciano Dakar per raggiungere l'Europa. Un'Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, gli orrori dei centri di detenzione in Libia e i pericoli del mare.