C’era un tempo, neanche tanto lontano, in cui la critica si impegnava a cercare di contestualizzare e ordinare il cinema d’azione hollywoodiano. Non il poliziesco, non il noir, non il gangster movie, che erano già largamente accettati, ma proprio l’action, il cinema delle esplosioni e delle sparatorie ininterrotte, che procedeva a blocchi di genere annodati da cordoni più o meno robusti. Anche qui il regista poteva svolgere un’idea, un’invenzione, un colpo d’ala, tanto che molti – talvolta affrettatamente e immeritatamente – venivano incoronati con gli allori dell’autore. Poi, più o meno a metà degli anni Novanta, basta: con poche e discutibili eccezioni (l’astro nascente Michael Bay, i Wachowski), la critica ha abbandonato ogni impegno per dedicarsi ad altri argomenti più redditizi (tipo il postmoderno e Tarantino).
Ma oggi forse vale la pena risfoderare al riguardo qualche riflessione che all’epoca illuminava con pertinenza e arguzia non tanto i film dei cineasti più noti e celebrati (Friedkin, Hill, Mann, Frankenheimer, che avevano comunque una loro poetica), bensì il cinema blockbuster dei John McTiernan e dei Renny Harlin, quello dei Willis e degli Schwarzenegger e degli Stallone meno autoriali e più “bassi”, hard bodies (secondo la definizione di Susan Jeffords) nelle mani ad esempio di un John Flynn o di un John Irvin. Nessuna cinefilia spicciola, nessuna nostalgia, solo un dato di fatto: Paul Greengrass è forse il nome di punta odierno di un cinema d’azione capace ancora di costruire un immaginario o, per restare coi piedi per terra, di lavorare con abilità dinamiche e dispositivi.
Se argomenti e implicazioni sono già visti e tutto sommato trascurabili (compresa la ricerca dell’identità perduta), e al netto di un discorso sulla trasformazione di Matt Damon in hard body (sulla quale prima o poi bisognerà tornare), di Jason Bourne colpisce soprattutto l’articolazione dell’action quale forma di rappresentazione della realtà. Accadeva già nei capitoli numero 2 e 3 della serie, e – con maggior forza e coerenza – nel capolavoro di Greengrass, Captain Phillips - Attacco in mare aperto: ma qui è talmente evidente il lavoro sui meccanismi del genere e sulla messa in scena delle figure dell’azione che trovarvi un pensiero comune è facile. Di fronte alla lunghissima e clamorosa sequenza ad Atene (girata in verità in Spagna), durante le dimostrazioni di piazza per la crisi, o a quella – meno efficace, ma non troppo – ambientata a Londra, viene alla luce un’idea della folla usata come pericolo e ostacolo che, dentro il regime degli stereotipi di genere, non sarà forse nuova (in Jade, ad esempio, Friedkin aveva già messo la parola fine sull’inseguimento quale modello e strumento, con quello “da fermi” nella Chinatown di San Francisco), ma saperla mettere in pratica non è scontato. Quei venti minuti greci (ma quanti sono? venti? venticinque? trenta? quaranta?) sono un rilancio ininterrotto, schiacciato, compresso, disturbato da una fiumana di gente, da auto infuocate che cadono dai tetti, corpi, bandiere, fumo, buio, nero asfalto uguale al cielo nero: non ricordo nell’action hollywoodiano contemporaneo da multiplex una scena altrettanto complessa (neppure in Mad Max - Fury Road; e lasciamo perdere la serie di 007, che è un progetto a sé).
Il caos di Las Vegas che chiude il film, al contrario, gioca più sull’accumulo, ma l’effetto è ugualmente efficace e inventivo, perché una suspense alla Nel centro del mirino si sviluppa a poco a poco nell’ammasso quale approfondimento e accrescimento del cliché, un po’ come accadeva – benché in maniera più elementare e spersonalizzata - in Die Hard 2 - 58 minuti per morire: l’inseguimento fra il furgone della Swat e la Dodge Charger, mentre le auto travolte ammaccate pigiate rotte si ammucchiano, ha la sfrontatezza di un Peter Hyams e la perizia di un John Badham, e raggiunge livelli di spettacolarità eccezionali.
Greengrass come un Andrew Davis qualunque, dunque? Sì e no: ne conserva l’attitudine “originaria”, quella di un lavoro astuto e ingegnoso dentro i confini del genere e dell’industria (che già da sola non vale poco: ma per favore non chiamiamola più “artigianato”, che non ha più senso), nobilitandone insieme la prospettiva – di sistema, se vogliamo, ma non per questo da condannare – che la riproduzione dell’azione possa essere sufficiente a dire due o tre cose del mondo.
20 anni fa circa un giovane soldato, saputo che il padre era stato ucciso da terroristi, si offrì volontario per un programma sperimentale. Jason Bourne fu trasformato in un’arma umana da 100 milioni di dollari che, secondo i suoi progettisti, ebbe un malfunzionamento. Cercarono allora di toglierlo di mezzo, ma scoperta la propria vera identità, Bourne raggiunse una pace apparente e fece perdere le sue tracce per sempre, o almeno così sperava. Stavolta però, stanato da un’organizzazione estremamente duttile, molto più pericolosa di qualsiasi governo, Bourne mostrerà ai suoi inseguitori che un soldato, anche se spezzato, difende gli innocenti da coloro che detengono un potere senza controllo.