Angélique ha sessant’anni ma non si è ancora arresa. Continua a lavorare in uno strambo bar-cabaret – un palo per la lap dance, un po’ di musica, una stanchezza diffusa da enclave senza tempo – sul confine franco-tedesco. La vecchia linea Maginot non è più una trincea affollata, quanto un riparo intimo e slabbrato per viaggiatori distratti e di passaggio. Lì un tempo era stata una stella, seducente e libera, ma sente lei stessa che la sua luce si sta affievolendo.
Quando un vecchio cliente che ancora la ama le chiede di sposarlo, Angélique è lusingata più che realmente decisa a dare un colpo di spugna alla sua vecchia vita. I figli amatissimi, frutti di matrimoni lontani e/o avventure senza volto, guardano con dolce apprensione e – forse – curiosa speranza la possibilità che quella donna forte, indipendente, volitiva possa mettere la testa a posto.
Party Girl, opera prima di un terzetto di autori – Marie Amachoukeli, Claire Burger e Samuel Theis – mette in scena la vita reale della sua protagonista, scegliendo la strada della ricostruzione pseudo documentaria per estrarre dalla storia un distillato di realtà. Come in un gioco di specchi la vera Angélique regala concretezza al suo personaggio che in cambio le restituisce una compattezza simbolica che si esplica proprio nella sua indomabilità.
I tre registi – con Theis, che è uno dei veri figli della protagonista, spesso in scena – fanno un’operazione speculare a quella di Sarah Polley nel magnifico Stories We Tell: lì si indaga attraverso il documentario autobiografico una realtà da mettere in discussione, ragionando sul rapporto tra messa in scena e analisi della percezione di sé, come in una crime story psicoanalitica; qui si sceglie la strada della finzione per cogliere meglio l’anima di un personaggio, per scegliere il necessario, per sfrondare l’autobiografismo e trasformarlo in racconto.
Proprio per questo il film riesce a conquistare un valore empatico universale: le contraddizioni umanissime della sua protagonista assumono un senso emblematico. Il bilico di una donna in equilibrio tra l’incombente senso di invecchiamento e il rifiuto di una normalità borghese da sempre rifuggita è descritto con prorompente vitalità e nessuna melensa ipocrisia. Lo stile è asciutto e consequenziale e segue Angélique con pudore, la macchina da presa le sta addosso per cogliere i sussulti di ogni dubbio esistenziale, ma senza invadere il suo tumulto emotivo, timone ondivago del film.
Il risultato è un film di disarmante onestà che, pur nei limiti di un intimismo a tratti ombelicale, sa costruire un personaggio femminile sfaccettato e mai banale, ancora capace di mordere il mondo che le si spalanca davanti agli occhi.
Angelique ha sessant’anni e fa l’hostess in un cabaret al confine franco-tedesco. Col passare del tempo, i clienti diventano sempre più rari, tranne uno, Michel, che è innamorato di lei e, un giorno, le chiede di sposarlo.