Attraverso la falsa soggettiva della sequenza iniziale di Laurence Anyways – terzo film da regista di Xavier Dolan, datato 2012 – la macchina da presa passa in rassegna il consueto repertorio dolaniano di sguardi stupiti, intimiditi, perplessi, attoniti, ironici, tesi (un campionario umano in cui nessuno, significativamente, è uguale all’altro), che investono noi spettatori e al tempo stesso scrutano il volto negato della silhouette che si fa largo nella storia narrata. Emerge dal fumo, elegante nell'abito e al tempo stesso un poco goffa nelle movenze, la figura di questa (post)moderna Anna Karenina; di spalle, però, e in ralenti, aggrappata alla sua borsetta, mentre incede nel suo personalissimo percorso.
È il corpo di Laurence Alia (etimologicamente “l'altro”, ma Laurence comunque) a rivelarsi. È il suo delicato imbarazzo, frammisto a struggente e superlativa dignità, a essere indagato da quegli sguardi. Le fattezze di una scrittrice, nonché ex professore di Letteratura francese, che ai suoi studenti poneva interrogativi sull'opera di Proust e di Céline fino a quando gli è stato concesso, fino a quando cioè urgente è salito alle sue labbra quell'«Io muoio» che ha rivelato all'amata Fred, alla famiglia, a colleghi e allievi, l'impossibilità di continuare ad apparire uomo pur essendo da sempre, intimamente, donna. Donna senza per questo voler amare gli uomini. E Fred, nome apparentemente maschile, non ha potuto che continuare ad amarlo, Laurence, ad amarlo comunque, di quel sentimento rotondo e perfetto che continua ad auto-alimentarsi anche quando il corpo smette di diventare uno strumento di richiamo sessuale.
Un film gender, quindi, con il quale Dolan affronta la questione aperta dell’identità individuale nella società contemporanea, le tempeste famigliari (le cui dinamiche psicologiche vengono perlustrate con notevole cura), le discriminazioni e le aggressioni. Un film sull'essere transessuale ai propri occhi e a quelli della Montréal degli anni ‘90, decennio affacciato sul nuovo millennio, con le svolte epocali che avrebbero reso veramente liberi tutti, un decennio euforico reso epico e malinconico, nel film, anche da pezzi musicali davvero struggenti, dal superbo guardaroba sfoggiato dai due protagonisti Laurence e Fred, ma soprattutto dalla loro attitudine.
Se il tema è fra i più estremi trattati da Dolan, la tenerezza e la sensibilità con cui il regista guarda a questa storia, la rende forse la più delicata, la meno urlata e la meno estetizzante, anche se rimangono la consueta cura dell'inquadratura, dei costumi, dei colori, della colonna sonora (rigorosamente anni '80 e '90) e dei dialoghi. La più disperata, ma anche quella più intrisa di malinconica speranza.
La dimensione sociale, quindi, rovina al cospetto della struggente storia d'amore eterno che è Laurence Anyways, forse una delle più belle degli ultimi anni.
Una storia come mille altre, nelle separazioni e nei ricongiungimenti (“né con te né senza di te”) che si srotolano come un gomitolo di lana colorato, ma in cui gli addii sono anch'essi atti d'amore consapevoli dell'irriducibilità del sentimento pieno - quello incarnato da Laurence e Fred - a questioni di tempo, spazio, occhio sociale e perfino esigenze del corpo e della mente. Un amore assoluto, nel senso etimologico del termine (“ab solutus”, cioè “sciolto da”), che interroga piuttosto su quanto si possa essere davvero e completamente se stessi accanto a un'altra persona, senza cioè rinunciare a nulla, che piaccia o meno, di sé.
Fuori misura nei tempi (quasi tre ore di film a raccontare 15 anni di vita) e nel reiterarsi di alcuni momenti di compiaciuto indugiare, camp e animato da un'estetica da videoclip, il film è al contempo un maturo ed elegante mélo, genere cinematografico di riferimento su cui viene fatto un notevole lavoro. I topoi del melodramma vengono infatti riscritti: all'amore impossibile perché extra-coniugale o segnato dalle differenze di classe, il regista canadese sostituisce la differenza di genere, l'accettazione - o meno - di un sesso in transito, di un corpo in trasformazione. Alle violente accensioni, Dolan affianca i toni di una narrazione composta e pura soprattutto nel seguire Laurence nella sua lunga e metodica metamorfosi verso la propria intima natura, quella rivestita da un'apparenza d'uomo per nulla femminile né effeminata che, con discrezione e una felicità appena percettibile nei pudichi sorrisi del protagonista, percorre un cammino lungo, minuzioso, estesamente narrato, senza ricorrere a stereotipi debordanti e vistosi e per questo tanto più sconcertante. Laurence appare il diverso, eppure è tanto autentico, saldo e riconciliato, da far emergere piuttosto le contraddizioni altrui, incrociando gli sguardi della giornalista che lo intervista a trasformazione avvenuta, della madre che non l'ha mai sentito “figlio” ma che forse lo riconosce come “figlia”, dei colleghi pavidi, di Fred, che, pur rivolendo rabbiosamente con tutte le sue forze il proprio uomo, sembra paradossalmente l'unica ad amare la sua persona. Dietro la compostezza di Laurence, Dolan ci fa intuire, per scarti infinitesimali, l'instabilità emotiva del protagonista: nel primo quarto d'ora la regia passa rapidamente in rassegna la sua quotidianità con un montaggio sincopato ed ellittico, corredato da un attento uso del sonoro, tra cambi di tono e di volume, a sottolineare la crescente alienazione del personaggio, il suo distacco.
Il film punta quindi su un montaggio sensoriale, utilizzando l’incalzare della musica, magistralmente incastonata in immagini cariche di sensualità e significati simbolici, una messa in scena pop e di grande ricchezza visiva, che mescola gli stili, alterna il realismo all'onirismo, non si ferma davanti a ralenti e a falsi-raccordi, cari al cinema della Nouvelle Vague. Scene madri e scelte musicali che sono correlativi oggettivi filmici delle emozioni dei personaggi e che fanno deflagrare con commovente libertà il dramma in una congerie di emozioni e metafore dal respiro epico.
In questo, la scrittura flamboyant e postmoderna, che traduce in deliri visivi gli stati mentali dei protagonisti, le simmetrie andersoniane, l'enfasi stilistica debitrice di Wong Kar Way, la libertà à la Truffaut – uno dei nomi che Dolan ha più volte citato come una delle sue influenze maggiori – rendono icasticamente immortali la rabbia e la tenerezza del sentimento per cui Fred e Laurence (per noi tutti) staranno insieme per sempre, con i loro giochi che rivelano ciò che “limita” il loro piacere, chiusi in macchina all'autolavaggio, sommersi da una pioggia di abiti variopinti mentre camminano in slow motion nella luce brillante di un'isola di ghiaccio, catturati dai virtuosismi della fotografia, in mezzo ai loro sgargianti colori. E la chiusa del film con l'incontro iniziale, rilancia, sul piano discorsivo, una storia d'amore che non può davvero finire mai.
Anni '90. Nel giorno del suo trentesimo compleanno, Laurence confessa il desiderio di diventare donna. La sua ragazza, pur rimanendo sconvolta, accetta di rimanere al suo fianco e l'anno successivo Laurence torna a lavorare come professore di letteratura, ma questa volta veste i panni di una donna. Inizia così una nuova vita, ma il peso dello stigma sociale, il rifiuto della famiglia e l'incompatibilità della coppia comincia a diventare un problema insormontabile.