Viene dalla Berlinale (sezione Generation), passando per Bellaria, Paternal Leave, l’esordio alla regia di Alissa Jung, attrice tedesca che, da attrice (con un percorso tra l’altro sui generis, avendo soggiornato ad Haiti nel 2011 per un progetto umanitario ed essendosi poi laureata in Medicina, prima di intraprendere la strada del cinema e conoscere, attraverso la miniserie Maria di Nazareth, il marito Luca Marinelli, con il quale vive a Berlino), riesce a rendere perfettamente gli stati d’animo e i sentimenti dei suoi personaggi, un’adolescente tedesca che è stata abbandonata dal padre alla nascita e questo padre, italiano, un istruttore di surf che vive a Marina Romea e che sta cercando, quindici anni dopo, di ricostruirsi una vita con una nuova famiglia.
Questo è il tema del film: la paternità e tutto quello che comporta, nel bene e nel male, sia per un “padre” sia per le persone che gli stanno vicino, in primo luogo i figli; e l’essere figli, figli adolescenti nella fattispecie, feriti, rabbiosi, desiderosi di risposte alle domande che ci si è fatti dopo un evento a suo modo drammatico come l’abbandono da parte di un genitore, ma anche teneri e, fondamentalmente, bisognosi di affetto e riconoscimento. Di essere visti. Qui la figlia è Leo, quindicenne berlinese piena di grinta istintuale e di capacità di pensiero pur nella fragilità di fondo, che non appena la madre le svela qualcosa di più sull’uomo con cui, a vent’anni, l’ha messa al mondo, mostrandole un video in cui lui insegna surf sulla riviera romagnola, prende un treno e arriva in zona, trovando l’uomo in un chiosco in riva al mare, danneggiato poco prima dalla mareggiata; arriva lì con un quaderno pieno zeppo di domande e lo vuole intervistare, per sapere. Per capire. Nell’unica lingua comune, l’inglese (e anche questo è un aspetto interessante, nel film). Il padre invece è Paolo, un uomo che superficialmente definiremmo immaturo ma che arriviamo a comprendere a mano a mano che il film si dipana e che lui racconta a Leo la propria, di storia; non in un’intervista ma nello stare insieme, perché, le dice, non è con un’intervista che si capiscono le persone (e in questa che sembra una banalità c’è la bellezza disarmata e disarmante dell’adolescenza, il bisogno di capire tutto razionalmente perché non si conoscono – ancora - altre strade). Una figlia avuta a vent’anni da una compagna tedesca, l’incertezza, la difficoltà ma soprattutto la paura, la paura, la paura… non sentirsi pronto… non è facile a vent’anni decidere una cosa così grande, anche se così naturale… i dieci anni successivi chiuso in se stesso, senza avere una relazione… e adesso finalmente un nuovo inizio, con una compagna e una bambina piccola, che l’arrivo di Leo rischia di compromettere. La seconda parte del film mostra queste due nuove figure, madre e figlia, nel rapporto con lui e, inevitabilmente, con Leo, che Paolo fa finta di non conoscere: non ha nemmeno in quel momento la forza di ri-conoscerla, non davanti “al mondo”, perché sta cercando di non commettere, con la bimba, gli stessi errori che ha commesso con lei; ma attraverso passaggi successivi arriverà a “vederla” fortemente, pienamente. Profondamente. “Camminiamo nello stesso modo”, le dice a un certo punto; e questo elemento simbolico (come i molti che costellano, a volte forzatamente, il film, si vedano i fenicotteri veri e finti, vivi e morti) suggella la vicenda e porta Leo a ripartire, dopo quei giorni intensi in cui, sì, ha conosciuto suo padre e, sì, ha capito perché l’abbia lasciata sola, tornando nel suo paese. In tutto questo c’è un altro personaggio, Edoardo, un coetaneo di Leo dal padre violento, che non accetta la sua – probabile – omosessualità. Tra i due scatta immediatamente una simpatia e la ragazza lo aiuta a rimanere fermo su di sé e sui propri bisogni, mentre lui aiuta lei a vivere quel fine settimana particolare, fondamentale. Rivelatore.
Un film quindi innanzitutto psicologico, che mette a confronto due personaggi e lo fa in modo ammirevole, sensibile, autentico e soprattutto approfondito già in fase di scrittura, sempre di Alissa Jung. E con due attori spettacolari: Luca Marinelli in stato di grazia dopo M – Il figlio del secolo e l’esordiente Juli Grabenhenrich, meravigliosa, capace di rendere tutte le sfumature del suo personaggio. La storia però è inserita in un contesto, quello della riviera romagnola in inverno, che al di là dei riferimenti (La prima notte di quiete, Fellini, Rimini di Ulrich Seidl) è ritratto in maniera suggestiva da Carolina Steinbrecher, con quel grigio, grigio azzurro, e freddo, che potrebbe anche essere un bianco e nero, a caratterizzare cielo e mare, e volti. Un umore accresciuto dalla musica di Dascha Dauenhauer, associata a Kae Tempest (strepitoso il brano iniziale, Salt Coast, che copre tutto il viaggio da Berlino all’Italia e che contribuisce al dinamismo che l’opera ha in sé, perché nonostante le tematiche introspettive non si tratta di un film statico, tra giri, bagni in mare, fughe o tentate fughe) e a brani di Dalla (cantato) e Giorgio Poi come quello dei titoli di coda, Solo per gioco, suonato insieme a Marinelli, dal testo significativo. Perché, sì, dalle paure si può uscire, se si decide di affrontarle.
Leo ha 15 anni ed è cresciuta in Germania senza mai conoscere suo padre. Quando scopre la sua identità, decide di mettersi in viaggio per trovarlo e arriva su una spiaggia deserta della costa italiana, in un chiosco chiuso per l’inverno. Lì incontra Paolo, che resta spiazzato dal suo arrivo improvviso. Nei giorni che seguono, tra padre e figlia si crea un legame fatto di esitazioni e piccoli passi, ma la loro connessione, ancora fragile, viene presto messa alla prova...