Michael Winterbottom è un autore eclettico. Sia nei temi che ha di volta in volta toccato, sia nei generi con i quali si è cimentato: realismo, dramma, fantascienza, thriller, film erotico, film musicale, film storico… ma anche il documentario; anzi, si può dire che il suo interesse principale sia la realtà, sia storica che attuale, e che in molte opere abbia voluto raccontare l’uomo, e le dinamiche delle relazioni, ma anche il contesto in cui l’uomo è inserito, e come quel contesto, la California del 1867 (Le bianche tracce della vita) o, come qui, la Palestina degli anni ’30 e ‘40, influenzi o possa influenzare la vita delle persone. Alcuni suoi film sono più “leggeri” o commerciali (The Killer Inside Me), altri più seri e impegnati (Go Now, Cose di questo mondo, Genova – Un luogo per ricominciare, per citare tre titoli molto diversi l’uno dall’altro), ma lo sguardo del regista sulla realtà è una costante, tanto che, anche quando non l’ha affrontata direttamente in documentari come The Road to Guantanamo o, per stare sui temi dell’ultimo film, Eleven Days in May, ha cercato di renderne il peso e l’importanza, colorandola di meraviglia (Wonderland) o mostrandola nella sua brutalità (Benvenuti a Sarajevo), anche in senso giornalistico (A Mighty Heart – Un cuore grande). E sono proprio quelli più ancorati alla realtà i film con cui ha vinto l’Orso d’Oro e quello d’Argento a Berlino, nel 2003 e nel 2006.
Interessanti sono poi le opere che fondono un elemento di thriller o di mélo, più dinamico e accattivante anche per il grande pubblico, con l’elemento realistico attuale o storico o con quello documentaristico, come questo Shoshana (2023), presentato al Toronto Film Festival proprio un mese prima degli attacchi a Israele del 7 ottobre. La genesi del film risale al 2008, quando Winterbottom era ospite dello Jerusalem Film Festival con A Mighty Heart – Un cuore grande e, con il suo produttore Joshua Hyams, ha cominciato a interessarsi alla storia della Palestina e a saccheggiare gli archivi, a partire dall’Archivio Spielberg di Gerusalemme, per informarsi sulla questione e per trovare materiali da inserire nell’opera che iniziava a immaginare, tanto che nei quindici anni seguenti ha fatto casting, ha pensato ai possibili set e ha intervistato persone, leggendo l’autobiografia di Geoffrey Morton e, soprattutto, One Palestine, Complete di Tom Sege da cui ha tratto la storia di Shoshana, giornalista figlia del cofondatore del movimento sionista socialista Ber Borochov, storia che è stata però liberamente interpretata e romanzata, in un contesto ricostruito fedelmente.
Il film comincia infatti con dei documenti d’archivio che riguardano la Palestina del primo dopoguerra per arrivare al 1938, l’anno in cui Tom Wilkin viene mandato a Tel Aviv, dopo l’uccisione di Shlomo Ben-Yosef per terrorismo, e frequenta Shoshana; al 1942, l’anno dell’uccisione di Avraham Stern, poeta e attivista già arrestato ma rilasciato a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale, da parte delle forze mandatarie britanniche; al 1944, l’anno in cui Wilkin viene assassinato dai sionisti di destra a Gerusalemme, dov’era stato inviato l’anno precedente in quanto ormai nel mirino delle forze estremiste; e infine al secondo dopoguerra, quando l’Haganah diventa un vero esercito e Shoshana stessa, da sempre pacifista, combatte per cacciare gli inglesi dalla Palestina. L’opera quindi si focalizza su tre elementi: la storia della Palestina negli anni ’30-40, subito prima della fondazione dello stato di Israele; la presenza britannica nell’area e la funzione che le forze mandatarie inglesi hanno avuto come interposizione tra arabi ed ebrei e come contraltare al terrorismo di ambo le parti, ma anche come forza egemone in senso colonialista; e le vicende dei suoi personaggi, la relazione sentimentale tra Shoshana e Wilkin ma anche quella professionale tra Wilkin e quello che diventa a un certo punto il suo superiore, Geoffrey Morton, e tra Morton e Stern.
Il primo filo, reso da filmati d’archivio e da finti documentari in bianco e nero, con la voice over di Shoshana a spiegare l’andamento dei primi e poi degli ultimi eventi, parte dal congresso sionista di Basilea (1897) per mostrare l’arrivo dei primi coloni, seguìto, quando questi sono diventati un numero consistente (500.000 a metà degli anni ’30), dalla rivolta araba e dal conseguente terrorismo ebraico, ad opera dell’Irgun. Viene evidenziato il fatto che negli anni ’30, in una Tel Aviv laica e progressista, legata agli ideali del sionismo socialista di Ber Borochov, l’Irgun non godeva dell’appoggio della popolazione ed era considerato un gruppo isolato di terroristi, combattuto dalle forze di polizia britanniche e dal sionismo moderato, anche se Shlomo Ben-Yosef, condannato a morte nel ’38 per un attentato a un autobus pieno di civili arabi, era già considerato un martire del sionismo revisionista, ed era visto da molti come un eroe; l’Haganah invece, di cui faceva parte Shoshana, era una forza (di autodifesa degli insediamenti ebraici) inizialmente non violenta, che puntava alla coesistenza, nello stesso territorio, della popolazione araba e di quella ebraica. Solo successivamente, con il secondo conflitto mondiale, l’Haganah diventa un vero e proprio esercito e collabora in alcuni momenti con l’Irgun e la Lehi, con lo scopo prioritario di allontanare dalla Palestina l’autorità mandataria britannica (cosa che avvenne nel 1948, con la proclamazione dello stato di Israele). Shoshana stessa, che afferma con orgoglio che suo padre era un socialista e che a inizio film si scaglia contro il sionismo più estremo, con il secondo conflitto mondiale, dopo l’uccisione di Wilkin in un spirale di violenza che diventa sempre più accesa, imbraccia le armi contro la forza mandataria britannica e il film si chiude significativamente sul suo primo piano (in bianco e nero) dietro a una mitragliatrice, con uno splendido fermo immagine mentre il suono delle raffiche continua a sentirsi. La violenza genera violenza e coinvolge anche chi se ne vorrebbe sottrarre perché ha dei valori diversi, sembra volerci dire Winterbottom con questo film.
Il secondo filo, soffermandosi sul ruolo del Regno Unito in Palestina tra il 1920 e il 1948, ne evidenzia, oltre agli aspetti già sottolineati, anche la difficoltà a capire pienamente e ad affrontare la situazione di quel territorio, come dimostra l’uccisione di Stern da parte di Morton. Elemento, questo, che Winterbottom assimila a tutti i tentativi di mediazione/ democratizzazione/ modernizzazione di un paese da parte di forze straniere attuati con l’uso delle armi, come quello degli Stati Uniti in Afghanistan.
Il terzo riguarda gli aspetti romanzati del film, dalla storia d’amore tra Shoshana e Wilkin, ostacolata, da un certo punto in poi, dal fatto di trovarsi in parti diverse della barricata, ai rapporti di potere all’interno del corpo di polizia britannico e a quelli, non espliciti ma ugualmente significativi, tra Morton e Stern.
L’opera è infatti, oltre che un thriller storico appassionante, un dramma sentimentale in piena regola, girato in modo classico ma efficace (montaggio e musica in particolare, con The Man I Love dei Gershwin ad accompagnare la vicenda), che racconta degli eventi storici ma che può essere tranquillamente visto in modo più leggero, come un intrattenimento d’autore, grazie anche alle interpretazioni di Douglas Booth, di Harry Melling e soprattutto di Irina Staršenbaum, una Shoshana luminosa ed espressiva.
Tel Aviv, anni 30. Shoshana è una donna moderna, progressista e femminista, che intreccia una relazione con Wilkin, agente della squadra antiterrorismo delle forze di Polizia Britannico-Palestinesi, alla caccia di un leader clandestino, il carismatico poeta Avraham Stern.