È dai tempi di Nascita di una nazione (1915) che il cinema, per raccontare la Storia, utilizza le storie, quasi sempre familiari e d’amore, tracciando linee narrative che le intrecciano nei momenti cruciali.
La guerra, in quanto detonatore di passioni e violenze pressoché incontrollabili, è uno degli eventi che con maggiore frequenza fa da teatro all’incontro fra destini individuali e collettivi: l’esplosione di una guerra può – e quasi sempre, in un film, riesce a – interrompere un amore, lacerare un’amicizia, disperdere una famiglia. La tragedia di un popolo si misura sull’intensità e l’ampiezza dei drammi individuali che può contenere e generare.
Sole alto appartiene appunto a questo genere di cinema, avendo per sfondo la guerra dei Balcani; trova tuttavia in quest’ambito una strada di estrema originalità espressiva, in virtù soprattutto di due elementi. Il primo è quello di raccontare tre episodi che si svolgono a dieci anni di distanza l’uno dall’altro nei due medesimi villaggi, così da tracciare intorno alla guerra un perimetro temporale estremamente ampio, tale da consentire la descrizione dello sterminato repertorio di crudeltà e lutti, rancori e disperazioni che di un conflitto costituiscono ora le premesse, ora l’eco. Condizionati da ricorrenze centenarie (pensiamo ad esempio a quello, ora in corso, della Prima guerra mondiale), tendiamo a dimenticarci quanto la guerra abbia davanti e lasci dietro di sé una scia di dolore profondo e lancinante, che sfugge alle regolarità geometriche degli anniversari e delle rievocazioni. Ed è questo dolore a fare da collante alle tre storie, oltre che da punto d’attrito e di resistenza alla possibilità dei personaggi di seguire le opposte logiche dell’attrazione e del desiderio.
Il secondo elemento è rappresentato dalla scelta di far interpretare le tre storie ai medesimi due attori, di volta in volta impegnati in ruoli differenti, anche se simili nelle dinamiche che li collegano sia fra loro che in relazione al partner. Il ripetersi dei volti e dei corpi, a dieci anni di distanza, dà alle vicende e al film nel suo complesso un tono di malinconica universalità, quasi un sentore di disperazione repressa: passano gli anni, anzi i decenni, ma il groviglio di risentimenti che accomuna serbi, croati e bosniaci è tale da uniformare le persone, da renderle identiche fra loro, a dispetto della generazione e del grado di prossimità cronologica agli eventi della guerra Diversa l’etnia, comune la condanna a rimanere impigliati nella rete della diffidenza e della discriminazione.
L'amore tra un ragazzo e una ragazza raccontato in tre decenni e due nazioni. Stessi attori ma coppie diverse, dentro il cuore avvelenato di due villaggi balcanici. Il 1991 e l’ombra scura della guerra. Il 2001 e le cicatrici che devastano l’anima. Il 2011 e la possibile (impervia) rinascita. Un inno alla vita che ha trafitto i giurati di Cannes. Una sorprendente riflessione sulla natura umana che racconta l’ex Jugoslavia per raccontare il mondo e racconta il dolore per raccontare la speranza.