Sono silenziosi i luoghi della Belgrado di Stitches – Un legame privato. Appartamenti, quartieri residenziali e sale d’attesa municipali. Bastano questi silenzi, accompagnati da gesti e sguardi, a introdurre la vicenda. C’è una donna che cammina attorno a un ospedale, c’è il marito e la figlia che soffrono alcuni suoi modi di fare (come festeggiare delle ricorrenze inopportune), c’è il suo negozio di sarta, vuoto, e la sua riluttanza nei confronti di alcune persone (o alcuni clienti). Ci sono gesti che sembra ripetere da anni e persone che incontra da altrettanti. C’è vitalità solo nell’incontro casuale di scolaresche e una continua ossessione a ciò che le sta attorno, come se fosse pedinata o stesse pedinando qualcuno da una vita.
Il secondo lungometraggio diretto dal serbo Miroslav Terzić, presentato nella sezione Panorama alla Berlinale nel 2019, narra la storia di una maternità recisa e di un mistero irrisolto, di una sarta alla ricerca della verità sulla morte del figlio avvenuta il giorno della sua nascita, in ospedale, senza nessun referto medico, funerale o corpo da seppellire. L’atto di cucire è uno dei leitmotiv dell’arco narrativo della protagonista (il termine stitches, in inglese, si riferisce ai punti della macchina da cucire) che scava alla ricerca di un filo logico che metta insieme le trame della vicenda e attribuisca senso a un trauma lacerante.
Scritto da Elma Tataragić, già sceneggiatrice del film Dio è donna e si chiama Petrunya (presentato alla stessa Berlinale), Stitches – Un legame privato, come quest’ultimo, si organizza attorno alla dicotomia uno/tutti, singolo/comunità, che nel precedente film dell’autrice si decodifica nel contrasto tra una donna (anticonformista e emancipata) e una società che nasconde il proprio maschilismo dietro le pieghe della tradizione religiosa. Ma, ancora più pertinentemente, questa stessa dicotomia prende forma in un altro potente dramma sociale serbo, Otac (Padre) di Srdan Golubović (presentato quest’anno al Trieste Film Festival), dove un padre, a cui sono stati tolti i figli dai servizi sociali di un’amministrazione locale corrotta, attraversa la Serbia a piedi fino a Belgrado per far valere i propri diritti.
Si parla del diritto di essere genitori anche in Stitches – Un legame privato, dove a confrontarsi con la collettività è una madre e il sistema, a cui dichiara guerra, è quello delle azioni occulte delle istituzioni. Se in Otac (Padre) un uomo si scaglia contro un’ingiustizia sociale pur non venendo ostacolato quasi da nessuno (rendendo così il film una grande opera di fiducia nei confronti della sua nazione), qui la protagonista è ostacolata da tutti, isolata e avvelenata, spinta a un complottismo al limite dell’horror che la ritrae, nella sua incapacità di superare il lutto, come ostacolo al naturale corso di una convivenza collettiva. Una lotta che, per la prima metà del film, sembra riguardare solo lei, attribuendo un’aura di complessità a un’opera che in fin dei conti è molto elementare. Poi la nebbia si dipana e le verità iniziano a salire a galla (e l’intreccio si semplifica).
Dall’atto di cucire, si passa all’atto di pedinare (altro leitmotiv del film). Entrambe, due azioni ricorrenti. D’altronde, cucire è un po' far inseguire un pezzo con un altro e pedinare non è che rincorrere, guardare come ultimo atto di un’indagine. Allora, da questione privata, il film si fa questione pubblica, e il diretto impegno sociale, volto a svelare capitoli bui di responsabilità delle istituzioni pubbliche della Serbia contemporanea, si svela solo in conclusione. Perché nella realtà i casi sono ancora irrisolti e questo film non vuole che essere una piccola parte al tentativo di ricucirne la spaccatura.
Ana, una sarta di Belgrado, da anni cerca il figlio, scomparso alla nascita. Tutti intorno a lei hanno abbandonato le speranze, ma un giorno Ana vive una svolta inattesa grazie a una donna che potrebbe spezzare il silenzio, aiutandola a scoprire la verità.