Charlie Kaufman

Testamento labirinto

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Non percepirò più l’universo, percepirò lo Zahir. (Jorge Luis Borges, Lo Zahir)

 

Synecdoche, New York è un’opera testamentaria. E non importa che coincida con l’esordio registico di Charlie Kaufman, perché, come sostenuto da Gianni Amelio a riguardo di Querelle di Fassbinder, «il testamento, se uno vuole, lo può scrivere anche con l’opera prima».

Synecdoche, New York (così riporta il comunicato diffuso dalla Bim) «dopo una lunga battaglia legale che ne ha impedito la distribuzione», a sei anni di distanza dalla sua presentazione al Festival di Cannes, arriva nelle sale italiane.

Kaufman, l’eminenza grigia che ha reso possibili alcuni dei casi filmici più significativi verificatisi lungo il passaggio agli Anni Zero (Being John Malkovich; Eternal Sunshine of the Spotless Mind), determinante nel supportare creativamente alcuni dei protagonisti della grande rivoluzione estetica del circuito video musicale (Spike Jonze; Michel Gondry) a imporsi, come obbligatorio termine di riferimento, nel pantheon dei nuovi autori, esce allo scoperto (operazione in un certo senso già messa in atto con Adaptation) per confrontarsi con la regia così da poter gestire, in autonomia, la propria creazione.

Kaufman ha sempre seguito scrupolosamente, da vicino, partecipando anche produttivamente, all’evolversi cinematografico delle sue sceneggiature. Ha sofferto per le frequenti richieste rivoltegli affinché stemperasse l’eccessivo pessimismo degli script, così da permettere ai film una maggior vendibilità. L’inadattabilità al compromesso di Kaufman, che sta a monte della scelta di evitare la mediazione con coscienze aggiunte non completamente controllabili e quindi integrabili all’interno del proprio progetto artistico, è la stessa che tormenta Caden Cotard, il protagonista di Synecdoche, New York.

Cotard è un marito, un padre e un regista teatrale. Ai riconoscimenti professionali purtroppo non corrisponde un’altrettanto felice realizzazione affettiva. Impotente, di fronte all’abbandono della moglie che lo priva, portandosela via con sé, della figlia, vittima di un’inarrestabile nevrosi ipocondriaca, Cotard tenta di mettere a fuco la propria esistenza facendone soggetto della nuova pièce. Vuole riuscire a dar forma al suo dolore. L’idea, per lui sempre più assillante, è che l’arte possa permettergli di catturare e spiegare la vita, che la verità possa essere raggiunta mediante la finzione. Condizione necessaria affinché il senso si sveli è che questo tentativo di replica sia condotto con radicale onestà. Un progetto ciclopico, dagli intenti curativi ma con esiti devastanti, autodistruttivi, in cui la dimensione della rappresentazione si riflette in quella della follia (e/o viceversa).

Cotard (interpretato da Philip Seymour Hoffman, che mette a servizio della dissennatezza donchisciottesca di questo personaggio il proprio physique du rôle da Sancho Panza) dirige un’opera in cui gli attori scritturati devono recitare la parte di persone reali (lui con tutta la sua rete di affetti), nella loro quotidianità, meticolosamente ricostruita nell’ambiente controllato di una produzione teatrale. Il principio generativo che sta a monte della messinscena è dunque regolato da un processo sineddotico, dove la parte sta per il tutto.

Il fine è riuscire ad allestire una creazione che contenga la vita nella sua interezza. Particolare di cui però il regista non tiene conto è che la ricostruzione messa in atto gode di un’unica prospettiva, che ha in lui il solo punto focale. I personaggi portati in scena non sono altro che l’immagine moltiplicata di Cotard, delle sue paure e ansie, viziati dagli stessi difetti e vittime delle medesime patologie. Il regista si ritrova così fagocitato dalla sua stessa creazione che sempre più tende ad alimentarsi di sé e da sé prescindendo da qualsiasi confronto. Egli è ormai vittima del proprio delirio solipsistico, irrimediabilmente risucchiato in un inestricabile ripiegamento ombelicale. Non più burattinaio ma marionetta.

Il bisogno del protagonista di essere allo stesso tempo sguardo e cosa guardata è da subito evidente; ci è infatti presentato come riflesso. Synecdoche si apre su Cotard intento a specchiarsi; ma gli specchi, si sa «sono abominevoli perché […] moltiplicano e […] divulgano» (Borges). Quello che arriva di lui, a noi spettatori, è un’immagine di ritorno, non immediata ma reduplicata, un prodotto illusivo che rientra nella categoria della ripetizione. È la visione di una visione, che rimbalza. Il fatto di dare precedenza alla copia sull’originale allude, certo in maniera cifrata e nascosta, a quella che sarà l’ossessione che governerà il film, che quindi può dirsi già inscritto nella sua genealogia.

Siamo immediatamente intrappolati nel gorgo della mise in abyme che svela la valenza costruttiva dell’opera. La cattedrale filmica architettata da Kaufman moltiplica all’infinito i ribaltamenti; finzione e realtà si incontrano e si confondono divenendo l’una il doppio simulacrale dell’altra. Synecdoche è un vertiginoso labirinto di bivi ed eterni ritorni, dove il passato, perché simulato (il ricordo si crea nel corso del suo allestimento), si confonde, in un allucinatorio gioco di specchi, al presente. A dominare è un’idea della vita pensata in termini di rappresentazione, che sfugge però al controllo del proprio regista.

Kaufman giocando, alla maniera di Resnais, con l’identità, il tempo e la memoria, produce un nuovo visibile che si integra al reale, lo doppia e lo trasforma insieme; realizza un’operazione di moltiplicazione dei mondi possibili. La messinscena diretta da Cotard si rivela però una duplicazione differenziale, è qualcosa che si mostra come doppio per poi svelarsi come altro.

Synecdoche, New York è un film-limite: un film sul limite che Kaufman, per interposta persona del suo protagonista, sente di dover-voler oltrepassare: compiere il gesto registico assoluto, definitivo: rendere nuovamente vero, per mezzo della sua rappresentazione, ciò che è già reale. Ma, come detto da Derrida, «la vita è l’origine non rappresentabile della rappresentazione».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Synecdoche, New York
Usa, 2008, 124'
Titolo originale:
id.
Regia:
Charlie Kaufman
Sceneggiatura:
Charlie Kaufman
Fotografia:
Frederick Elmes
Montaggio:
Robert Frazen
Musica:
Jon Brion
Cast:
Philip Seymour Hoffman, Catherine Keener, Sadie Goldstein, Tom Noonan, Peter Friedman, Charles Techman, Michelle Williams
Produzione:
Likely Story, Sidney Kimmel Entertainment
Distribuzione:
Bim

Le vicende di Caden Cotard, regista teatrale frustrato, afflitto da una misteriosa malattia e ossessionato dal timore della morte. Lasciato dalla moglie che intende proseguire la sua carriera come pittrice, Caden tenterà una breve relazione con una donna, prima che la sua vita inizi misteriosamente a trasformarsi.

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