Ci sono film che esondano oltre i margini della sala. Cominciano e proseguono prima e dopo lo spazio-tempo della visione. Per comprenderne la portata è necessario quindi leggerli al di là del testo, ampliare la prospettiva, sforzandosi di abbracciare nel campo visivo anche il contesto che li ha formati.
Belluscone di Franco Maresco è uno di questi casi di “cinema espanso”. Per capirne l’importanza non si può non tener conto delle sciagure produttive che ne hanno condizionato la realizzazione, a tal punto da far diventare l’opera la preziosa testimonianza di un fallimento: quello di realizzare un film su Berlusconi, occasione lungamente corteggiata da Maresco per tornare a dirigere dopo un decennio d’assenza (il suo ultimo lavoro, realizzato ancora in coppia con Daniele Ciprì, è Come inguaiammo il cinema italiano - La vera storia di Franco e Ciccio); una lontananza dal set costatagli, suo malgrado, l’ascesa nell’empireo degli autori dannati (dalle beffe della cattiva sorte).
Il regista e il politico, che meglio ha saputo interpretare e assecondare la mutazione antropologica degli italiani, si trovano così, su diversa scala, a condividere lo status di fenomeno di culto. Dire qualcosa su di loro si scontra sempre fatalmente con un contraddire, in un incessante gioco di reciproche elisioni. Le parole non riescono a darne una definizione compiuta, ogni affermazione ne stimola di rimando delle altre, generandogli tutt’attorno un carosello di voci dissonanti e cacofoniche. Due dèi, ora, forse, vecchi, stanchi, deliranti, che hanno sapientemente giocato con la propria immagine (in assenza, il primo; in sovrabbondanza, il secondo), rendendosi, attraverso questa (vacillante e sparpagliata), imprendibili.
Si sta a Belluscone come di fronte agli enigmi wellesiani, anche qui la struttura a “inchiesta” è riflesso di un film in fieri e in continua evoluzione, un enorme work in progress che indaga sul mistero-Berlusconi/Maresco. Un allucinatorio gioco di specchi che apre una lacerazione tra le immagini duplicate.
Il film inizia riproponendo una delle soluzioni classiche del cinema mareschiano, con un intervento fuori campo del regista, che ci presenta, alla sua maniera, l’oggetto del film, la sua maledizione. La stessa voce diventa, nello stacco successivo, un messaggio lasciato in segreteria a Tatti Sanguineti, coinvolto come consulente nell’operazione filmica, in cui Maresco, oltre a chiedergli di interrompere il lavoro cominciato, gli comunica la decisione di sparire, invitandolo a non cercarlo. A questo punto Sanguineti, recuperando il materiale girato, cerca, in questo, le tracce che lo portino al ritrovamento dell’autore.
Come scrisse Rohmer, per i Cahiers, a proposito di Rapporto confidenziale di Orson Welles, anche nel caso di Belluscone ci si ritrova ad avere a che fare con una «verità che si sgretola nelle mani di chi conduce l’inchiesta». E questo riguarda tanto Sanguineti alle prese con Maresco, quanto quest’ultimo nella sua indagine sulle radici siciliane dell’ascesa berlusconiana. Un’inchiesta che coinvolge imbonitori d’arte varia: dai cantanti neomelodici al loro scalcagnato impresario, Ciccio Mira, mesto incrocio di donchisciottismo e donabbondismo, fino ad arrivare al più diabolico dei burattinai, Marcello Dell’Utri, moderno Richelieu che, con la complicità del regista, gioca la parte prevista dal proprio personaggio (“Se un giorno Berlusconi decidesse di svelare i suoi segreti, che cosa pensa possa venire fuori?”. “Un sacco di cose, per esempio anche qualche mistero sulla morte di Mattei”).
Il film, strutturandosi come una vertiginosa costruzione di rappresentazioni simulate, sistematicamente sconfessate, di eventi che restano sempre da immaginare, dichiara l’impossibilità di istituire un livello incontrovertibile di verità. È un abbindolamento generale, più assordante di qualsiasi inconfessata rivelazione, perché ci coinvolge come complici: il desiderio di smascherare la canaglia, di trovare indizi che provino la sua colpevolezza, ha portato a trascurare l’evidenza dei fatti: ormai il crimine è compiuto e sta davanti agli occhi di tutti.
Per Maresco, così come per Welles (stando a quanto scritto da Ferrero a riguardo di F for Fake), «la verità è degli altri, che la tengono e vi si tengono stretti; ma la menzogna, al solito, ne rovescia l'arroganza in inesistenza, ne schernisce la pretesa di supremazia». E infatti il regista non si è presentato alla conferenza stampa di presentazione del film, facendo continuarel’inganno della sua scomparsa.
Il film che avrebbe voluto raccontare il rapporto unico tra Berlusconi e la Sicilia, attraverso le disavventure dell'impresario palermitano di cantanti neomelodici, organizzatore di feste di piazza, Ciccio Mira – imperterrito sostenitore di Berlusconi e nostalgico della mafia di un tempo – e dei due artisti della sua “scuderia”, Erik e Vittorio Ricciardi, che in cerca di successo decidono di esibirsi insieme nelle piazze palermitane con la canzone scritta dal primo, dal titolo “Vorrei conoscere Berlusconi”.