Non facciamoci fuorviare dal titolo. J.D. Salinger, lo schivo scrittore mito che con una manciata di capolavori divenne il riferimento obbligato di più di una generazione, c'entra sì ma solo tangenzialmente, è quasi un'esca di quello che è sostanzialmente un racconto (quasi una biografia) di formazione. Salinger è il nume, tutelato quasi religiosamente, dell'agenzia letteraria newyorchese in cui viene assunta la protagonista Joanna, fresca di università e di nascoste ambizioni poetiche. Dovrà fare da filtro (in pratica: cestinare con risposta automatica) con la corrispondenza inviata allo scrittore da fan di ogni sorta e nazionalità. Oltre naturalmente a far da segretaria: dattilografare, tradurre, eccetera eccetera. Sarà un anno in cui lo spirito positivo della “debuttante” al lavoro (che peraltro non ha mai letto nulla di Salinger) si incrocerà con la particolare tipologia radical snob intellettuale e gentile dei colleghi, tra cui Margaret, la titolare, un faro per algidità acuminata e una certa brillante coerenza, mentre la sua vita sentimentale pencolerà tra la fine di una relazione e la nuova convivenza con un coetaneo aspirante scrittore. Senza contare che arriverà a farsi notare persino dall'autore de Il giovane Holden, meno rustico di quanto viene descritto.
Il film, che ha aperto la 70ma Berlinale, è tratto dall’omonimo romanzo Un anno con Salinger di Joanna Rakoff (in Italia edito da Neri Pozza) e appare tanto evidente che si tratti di vita vissuta, quanto che abbia lavorato molto di dolcificante e romanzesco. Ma forse c'entra anche la mano, abile e morbida, del regista, il canadese Philippe Falardeau, già conosciuto soprattutto per Monsieur Lazhar (candidato nel 2011 all'Oscar) e per The Bleeder del 2016. Fatto sta che il personaggio di Joanna mentre si destreggia in stato di grazia nella Manhattan degli anni Novanta (ricreata a Montreal), mostra, accanto all'entusiasmo e alla disponibilità vitale della fanciulla in fiore, un po' troppa sicurezza di sé di fronte alle insidie del lavoro e del rapporto con gli altri, uno spirito positivo, ricettivo e pratico sin troppo ammaliante, come il sorriso della protagonista Margaret Qualley. Come avrebbe cantato Guccini: «a quell'età si è stupidi davvero», invece Joanna non sbaglia un atteggiamento, un sorriso, una battuta, una scelta. Persino quello che potrebbe adombrare una certa meschinità egoistica di carattere – vedi i suoi ondeggiamenti sentimentali – sfuma in un'atmosfera sognante e garbata, in cui una sala d'albergo diventa una sala da ballo “agita” con tenera goffaggine dalla protagonista col suo ex uomo. Persino i “fantasmi” degli autori delle lettere a Salinger possiedono un surplus di emotiva personalità con cui simpatizzare, a dispetto della loro oggettiva situazione spesso patetica.
Insomma, qui è assente la frivola ferocia di Il diavolo veste Prada che qualche critico oltreoceano ha evocato, qui tutto è morbido, filo-newyorchese, chic e i sogni si possono realizzare a dispetto del costo della vita. Insomma carino. Comunque del tutto convincente è il personaggio e la performance di Sigourney Weaver che con un semplice accenno di sorriso, a tagliare i suoi lineamenti duri e aristocratici, rivela umanità e la sofferenza di una intelligenza sensibile che ha dovuto/saputo corazzarsi di snobismo.
New York, anni ’90: dopo aver lasciato gli studi di specializzazione universitaria per diventare scrittrice, Joanna viene assunta come assistente di Margaret, l’agente letteraria impassibile e un po’ rétro di J.D. Salinger. Il compito principale di Joanna è rispondere, con un messaggio formale dell’agenzia, alle migliaia di lettere inviate dagli ammiratori di Salinger. Ma leggendo le parole struggenti che arrivano da tutto il mondo, Joanna diventa sempre più riluttante a rispondere con la lettera impersonale dell’agenzia e d’impulso inizia a personalizzare le risposte. Tratto dall'omonimo romanzo di Joanna Rakoff.