Che senso ha portare avanti uno schema, già zoppicante al primo episodio, per altre due puntate?
Dopo L’appartamento spagnolo (2002) e Bambole russe (2005), che certo non brillava per ritmo e originalità, Cédric Klapisch decide di riprendere le avventure di Xavier, Isabelle, Martine e Wendy, ormai alla soglia dei quaranta, con figli a carico, relazioni fallimentari alle spalle, traslochi in altre città.
Ne esce un film noioso, inutile, vacuo e privo di guizzi. Non è semplice riprendere lo stesso personaggio/gli stessi personaggi per più film, a meno che non si tratti di film con supereroi (e anche in quel caso non sempre il risultato è all’altezza delle aspettative) oppure opere di registi particolarmente talentuosi.
François Truffaut ha seguito Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) dall’infanzia all’età adulta, indagandone i turbamenti amorosi e le delusioni, mostrando con grazia senza pari la levità della vita. E lieve è anche lo sguardo di Richard Linklater che si posa su Jesse e Céline, la coppia della trilogia dei Before. Eppure, sia in un caso che nell’altro, la leggerezza dei toni non smorza le complicazioni dell’esistenza, semmai permette un punto di vista non ricattatorio, in cui l’accettazione di errori e fallimenti consente ai personaggi di andare avanti senza pietismi, consapevoli di essere, in fondo, parte di una grande messa in scena collettiva in cui si è solo comprimari, nonostante l’illusione di aver il ruolo dei protagonisti almeno per il breve periodo di tempo attraversato.
In Rompicapo a New York, invece, la leggerezza è confusa con la vacuità. C’è una scena verso la metà del film che sarebbe sufficiente per descrivere l’intera pellicola: Xavier, raggiunto a New York dalla prima fidanzatina, Martine, permette alla ragazza di leggere la bozza del libro a cui sta lavorando. Martine si diverte e si commuove di pagina in pagina e alla fine gli dice “Però sembra che per te la vita sia una complicazione continua, mentre in realtà è più semplice”. Xavier la guarda un po’ inebetito e le risponde “Beh, io e te ci siamo lasciati, ho passato dieci anni con una donna da cui ho avuto due figli, abitando tra Parigi e Londra, poi lei mi ha piantato, si è trasferita a New York per andare a convivere con un americano del quale si è innamorata, io l’ho seguita per stare vicino ai miei figli, nel frattempo ho sposato una donna cinese per ottenere il visto negli Stati Uniti e ho donato il mio seme alla mia migliore amica e alla sua compagna affinché diventino madri. Se la mia vita non ti sembra complicata…”. A questo punto è Martine a guardarlo inebetita.
Il guaio è che il fulcro della scena (e del film) non è tanto che Xavier ha dovuto affrontare molti imprevisti, ma lo sguardo inebetito dei due. Tutto quello che gli è capitato non l’ha spostato di un millimetro, non l’ha turbato, rattristato, reso felice. Come lo sguardo svanito dei due, così il film procede perdendosi (anche a causa di una sceneggiatura davvero imbarazzante), nella vana speranza che un paio di movimenti di macchina, due sorrisi e una battuta risollevino le sorti di un progetto che nasceva già vecchio nel 2002 e che, di volta in volta, non ha fatto che peggiorare.
Xavier non si è ancora "sistemato" ma qualcosa ha fatto e quel qualcosa ha reso la sua vita ancora più complicata! I due figli e la sua passione per il mondo lo hanno portato a New York. Sta ancora cercando la propria collocazione, come padre, come figlio e come uomo, in mezzo al caos coloratissimo di Chinatown. Separazioni, genitori gay, famiglie in affido, immigrazione, lavoro nero, globalizzazione: la vita americana di Xavier è un rompicapo in una New York contemporanea nevrotica e disordinata proprio come il racconto che sta scrivendo.