Tempi duri per i Cinghiali Bianchi di ogni ordine e appartenenza. Tempi duri per i ritardatari. Specialmente se si presume l’uso dei social network. Che, beninteso, sono una grande risorsa per comunicare in modo diretto e istantaneo. Per chi ne ha voglia. Ma non possono diventare implicitamente un canale di comunicazione. Oltretutto a senso unico.
Non per niente i problemi cominciano quando si dà per scontato che tutti ci siano, tutti vi facciano fisiologicamente ricorso. Se non sei su Facebook o su Twitter, o peggio ancora non sei in grado di leggere un tweet, quindi di rispondere, che importa? Il problema è tuo. Si dà insomma per scontato che si è destinatari di un tweet, e quindi attrezzati per riceverlo. A meno che i tweet non si scrivano, ancorché riferiti a qualcuno, perché altri li leggano e li commentino, non il diretto interessato o potenziale destinatario.
Ora, immaginiamo che qualcuno scriva qualcosa da qualche parte, una testata cartacea o on-line non fa differenza, in piena legittimità, condivisibile o meno. Immaginiamo che l’argomento sia il cinema. E che c’entri un determinato film. Un film abbastanza noto. Può accadere che qualcun altro non sia d’accordo. Legittimo anche questo. Legittimo anche che la controparte si auto-investa di una difesa d’ufficio del film in questione. Niente di meglio di un patrocinio gratuito, volenteroso.
Ma cosa accade a questo punto? Un tempo, tanto tempo fa, grosso modo durante la preistoria della civiltà o della critica cinematografica, lo scambio di punti di vista (sottolineo: “scambio”) avveniva in presenza dell’interlocutore, o al più consentendo all’interlocutore di essere informato della divergenza di opinione. Magari si restava sul merito della cosa scritta/letta, non ci si prendeva la briga di attaccare personalmente chi l’aveva scritta, peraltro con investimento, diciamo così, “retroattivo”. Preistoria, appunto.
Nessuno vieta di scrivere una cosa, a torto o a ragione, non importa. Nessuno vieta che tale cosa sia contestata. Si può non essere d’accordo. E non è obbligatorio cercare un confronto. Ma qualora se ne avesse voglia, sarebbe più opportuno non affidarsi a un tweet. L’esistenza di Twitter non presuppone che tutti ci passino del tempo inviando o ricevendo messaggi. Logico, no? Evidentemente no. Si direbbe ormai che se si posta un tweet è inammissibile che non possa essere letto. Come se ognuno fosse automaticamente in grado di farlo. Come quando in un processo di tipo inquisitorio l’onere della prova spetta all’accusato. E se non si risponde con un altro tweet magari si dà l’impressione di volerlo ignorare di proposito, per snobismo o perché a corto di argomenti per replicare.
Guai invece ad accorgersene dopo più di un anno, per caso, perché qualcuno te lo riferisce. Scopri che la mancata replica sul social network in questione ha già generato, nell’arco di 24 ore, un anno prima, commenti abbastanza sferzanti, relativamente gratuiti, comprensibilissimi, per quanto mimetizzati dentro la circostanza specifica. Scopri come a quel tweet risponda o si associ con chiaro risentimento personale invece qualche (altro) regista, nemmeno quello del film in questione. Quest’altro, ovviamente, poco interessato a entrare nel merito, si leva qualche pregresso sassolino dalla scarpa. Problemi suoi, chiaramente.
Va da sé che non stiamo parlando di un caso ipotetico, ma di uno preciso. Lasciamo da parte nomi e cognomi, come si faceva nei film politici italiani scomodi. Per dirla con la nota didascalia dell’intramontabile Le mani sulla città di Francesco Rosi: «I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce». Quasi.
Che dire di più? Sarebbe bastato scrivere una mail al diretto interessato per avere un chiarimento. O un articolo da qualche parte, in modo da aprire un piccolo dibattito. Che peraltro si sarebbe esaurito in fretta perché non si era affatto consumato il reato di lesa maestà ai danni del film intoccabile. Semplicemente una constatazione “aritmetica”. Non serviva insomma un tweet, salvo che a scatenare una fatwa da pianerottolo, prezioso pretesto per quanti – bontà loro - hanno voluto agganciarsi con fragili e banali considerazioni anti-accademiche per camuffare un inconfessabile conto in sospeso di diversa origine e provenienza.
Anche perché, pur volendo dar conto del senso di un’espressione usata in articolo scritto nello spazio assai frettoloso di 20 minuti (e di cui francamente si era persa ogni traccia, tanto da rivendicarne quasi con incredulità la brillante, istintiva, quasi immeritata pertinenza), non siamo sicuri che i 140 caratteri disponibili sarebbero stati sufficienti. E non certo per «spiegare UN PO’», un concetto a quanto pare poco chiaro, dunque contestato, invero abbastanza semplice e intellegibile per chiunque non abbia pregiudizialmente voglia di fraintenderlo. Bensì per aiutare l’indotto di coloro i quali hanno approfittato di un tweet provocatorio per dar contestualmente voce a fantasmi conflittuali fin troppo circostanziati. Aiutare a rilassarsi per superare i brutti ricordi, andare avanti, crescere.