Torna nelle sale dal 14 luglio, in versione restaurata (dalla Fondazione Cineteca di Bologna) e in 4K, Quattro mosche di velluto grigio, terza regia di Dario Argento nel 1971 e conclusione di una trilogia che ha un animale nel titolo.
Rivisto oggi, resta ancora uno spettacolo estremamente godibile, molto “argentiano” nella sua composizione narrativamente spezzettata e selvaggia, pregi e difetti compresi, evidente capitolo di passaggio verso quelli che saranno i suoi titoli fondamentali, quelli del trasloco dal giallo al thriller e all'horror.
Qualcuno sta ossessionando la vita del batterista rock Roberto Tobias. Pedinato da un misterioso e inquietante personaggio, reagisce con una colluttazione che porta all'uccisione del persecutore, senonché (guarda il caso!) sul posto un fotografo mascherato scatta le immagini di tutta la sequenza e comincia a perseguitarlo. Perché? Sconvolto e stressato, mentre il rapporto con la moglie Nina si incrina, chiede aiuto a un amico clochard che lo indirizza a un investigatore. Le morti si moltiplicano e con esse monta anche l'incubo del musicista, che sogna a più riprese di venire decapitato pubblicamente in una esecuzione nei paesi arabi: sintomo o premonizione?
A dispetto di una trama che, oggi come allora, scricchiola se la si prende dal punto di vista logico (ma poi: chi se ne importa?), 4MdVG rappresenta un grande passo in avanti sperimentale da parte del cineasta. Non solo perché, avendo a disposizione finalmente dei capitali consistenti (Cine International Corporation, cioè la Paramount), poteva osare nella cura e nelle trovate, ma anche perché, rubando dal suo autobiografico Paura, ed. Einaudi: “doveva essere molto diverso dagli altri due, ogni elemento avrebbe dovuto suggerire un progressivo slittamento dal quotidiano verso l'onirico”. E infatti...
Incubi filmati con una luce abbacinante turbano la mente del protagonista, la stessa musica rock distorce la percezione delle immagini (all'inizio lui pensava ai Deep Purple, poi questioni di diritti non lo consentirono), le inquadrature curate da Francesco Di Giacomo hanno stimolato la fantasia visiva di Argento verso l'originale e l'ardito (vedi una ripresa che pare effettuata dall'interno della chitarra). Il gusto quasi ludico per l'innovazione tecnica lo ha portato poi a filmare la traiettoria di un proiettile e l'incidente finale che culmina con la decapitazione del colpevole in un estremo e spettacolare ralenti (a 18.000 fotogrammi al secondo, da qui l'effetto). Insomma, più o meno inconsciamente, come ha ammesso lo stesso autore, stava già facendo le prove per l'epocale Profondo Rosso.
Peraltro la sceneggiatura (di Argento, Luigi Cozzi e Mario Foglietti) inframmezzava il giallo di sottotrame varie spesso buffe (come nei precedenti). Il personaggio del clochard Dio/Bud Spencer (sta per Diomede e consente alla colonna sonora potente di Ennio Morricone di “sparare” un beffardo haendeliano “alleluja” al suo apparire) che possiede un pappagallo di nome “Affanculo”, più quello del professore che cita versetti della Bibbia (Oreste Lionello) forniscono siparietti comici, vedi anche la visita grottesca alla Fiera delle bare. Peraltro Dio, oltre a mangiare pesciolini crudi, dice cose molto sensate: “tipi così sono capaci di compiere delle stragi. Per motivi che a noi sembrano banali”.
Il grande Jean-Pierre Marielle è l'investigatore Arrosio (e chi conosce il dialetto siciliano capisce subito), 84 casi irrisolti e gay da caricatura: “So cosa pensa. Questo tipo così lezioso appena vede un topo salta sulla sedia. Ah, voi eterosessuali!”, l'altrettanto immensa Marisa Fabbri è la serva che vorrebbe ricattare e finisce barbaramente trucidata (nel tipico costume del regista che usava magnifici attori teatrali per poi magari farli massacrare). E poi i due protagonisti, quasi scelti per una certa somiglianza con Dario e la prima moglie Marisa (la cui relazione stava andando in crisi): Michael Brandon che divenne un suo grande amico e Mimsy Farmer, protagonista di tanti film d'autore o thriller e poi pittrice e scultrice di successo.
Infine le riprese. Un puzzle per una città di fantasia, in funzione dello spiazzamento che doveva trasmettere al pubblico: Roma (compresa una via Fritz Lang, evidente ammicco cinefilo), Torino, Milano (la stazione del metro che non è Lotto come si legge, ma Duomo), Tivoli, Spoleto e la Grande Moschea di Qayrawan, in Tunisia.