Era il 1985, e Ron Howard, raccontava del sogno (impossibile) dell’eterna giovinezza in Cocoon. Raccontava i vecchi che non ne volevano più sapere di essere vecchi, che si abbeveravano a una fonte che però, per prolungare la vita a loro, l’accorciava a chi la doveva ancora assaporare.
A modo suo, Howard raccontava che la coperta, come abbiamo scoperto sempre di più nel corso di questi ultimi trent’anni, è corta. E anticipava i problemi che le società odierne vivono (stavano iniziando a vivere) in termini di economia, sociologia e psicologia a causa dell’invecchiamento della popolazione dovuto all’allungamento della vita da un lato e al calo della natalità dall’altro.
Fino ad allora, la vecchiaia al cinema era stata quasi sempre sinonimo di bilanci esistenziali, di ragionamenti sulle eredità lasciate, di discorsi intorno a una fine dignitosa della propria esistenza: da Il posto delle fragole a Umberto D, passando per Una storia di Tokyo fino alle declinazioni post hippie di Harold & Maude. Nel film di Ashby il messaggio più esplicito di così non poteva essere: la vecchiaia e la giovinezza possono e devono condividere gli stessi entusiasmi e la stessa gioia di vivere, ma le differenze non possono essere ignorate e chi è anziano deve fare i conti con la sua decadenza e la sua mortalità, mentre chi è giovane deve continuare a vivere la vita.
Ma torniamo a Cocoon: dopo il film di Howard, le cose al cinema sembravano continuare come prima, perlomeno tematicamente; ma i film sulla terza età hanno iniziato a prender piede sempre di più, lentamente ma inesorabilmente, tra A spasso con Daisy e Una storia vera, gli inevitabili focus sulla malattia di Away From Her, sull’eutanasia di Amour, perfino sulla sessualità nella terza età di Settimo cielo, fino ai revanscismi di Quartet e le storie on the road alla Nebraska.
Ecco. Già in questi ultimi due titoli possiamo individuare il tratto più interessante del ragionamento del cinema contemporaneo attorno alla vecchiaia: ovvero una sorta di rifiuto della stessa, nel nome del diritto a vivere una vita completa e giovanile; nel nome del passato.
Allora non è solo perché le vecchie glorie si rifiutano di andare in pensione, o perché si ammicca alla conquista di un pubblico (sempre più numeroso) in là con gli anni, che fioriscono film geriatrici.
Da I mercenari in avanti fino a Il grande match e Last Vegas, passando per Escape Plan e Jimmy Bobo, appare chiaro il segnale della riscossa di una old school che passa per il rifiuto dell’invecchiamento del corpo e non, come in Harold & Maude, di quello ben più legittimo della mente o di un diritto ad un ruolo presente e fattivo in una società che ha mutato il suo baricentro anagrafico di un paio di decenni in avanti rispetto a qualche decina d’anni fa.
Se Jack Nicholson e soprattutto Diane Keaton lo facevano con ironico e decadente orgoglio in Tutto può succedere, gli Stallone, i De Niro, gli Schwatzenegger e Michael Douglas ostentano i loro corpi quasi alieni tentando di rimanere sulla cresta dell’onda in maniera berlusconiana, a colpi di palestra e plastiche facciali.
Curioso che proprio Stallone, che aveva inaugurato questo ritorno positivamente patetico della sua icona con Rocky Balboa e I mercenari, sia ormai passato dall’altro lato della barricata del patetismo, finendo col diventare macchietta di sé stesso. E che se Douglas ha giocato con intelligenza sui temi del corpo, del cambiamento e della vecchiaia con Dietro i candelabri, ritorni anche lui in versione assai meno consapevole e inutilmente sfacciata in quel Last Vegas nel quale De Niro, così come ne Il grande match, cala definitivamente delle braghe che un tempo gli avevano regalato dignità e rispetto.