Tre cose su Silence.
1. Ecco uno di quei casi in cui i mi piace/non mi piace (pensavo meglio, credevo peggio, mi annoia l’inizio il centro o trequarti, preferisco il petto o la coscia) appaiono più insensati del solito. Non è un film che ha bisogno di piacere, o sorprendere, o insegnare, o riceve bei voti su Imdb (per ora è un 7,7, non l’avrei mai detto). Non lo so se è un film “bello” o “brutto”, mentre lo guardavo non mi è mai capitato di pensarlo in questi termini, come non mi capita mai quando mi imbatto in un grande film. Anzi, forse mi è capitato per un attimo, nel finale, con quel movimento della mdp che non avrei voluto vedere, “che brutto!”. Mi sarebbe bastato il gesto della moglie, di una donna che poteva sembrare solo un accidente narrativo, e che invece emergeva all’improvviso da tutti quegli anni sprofondati in un’ellissi, per offrirci un dubbio in più o una verità ulteriore. Se non fosse che quel movimento è una delle cose più importanti del film, è la voce di Scorsese in persona, al di là della storia, del tema, del romanzo, dentro il percorso del suo cinema (il filo qui è Mean Streets-Toro scatenato-L’ultima tentazione di Cristo-Kundun-Al di là della vita). È fondamentale per quello che rivela, sottolineandolo, per quelle mani, e il calore, e la luce (il “sacro cuore”).
2. Continuo a ripensare a quei personaggi straordinari. L’inquisitore serpente e il suo aiutante perfido e sapiente, che conoscono il mondo molto meglio del prete, perché lo osservano dal punto di vista delle cose e delle persone, non da quello delle Idee. Il martire del villaggio, con la sua fede incrollabile che il prete non potrà mai avere, che crede ciecamente nell’oggetto e nell’immagine (e nel paradiso). Padre Ferreira e l’impenetrabile mistero della sua fede scomparsa/nascosta/rinnegata/sublimata. Ma soprattutto il pentito compulsivo, che non può che ricadere nell’errore, lo specchio in cui padre Rodrigues non vuole riconoscersi (eppure è lui Gesù! non il volto di Cristo in cui si specchia!).
3. Quante cose dice questo film, e quante volte sembra che ti stia portando in una direzione, per poi ritrovarti da un’altra parte, a chiederti come ci sei finito. La fede, sì, la forza sovrumana (o solo umanissima) che ti dà, ma anche l’illusione, l’ambiguità della fede, la sovrastruttura storica e teologica, l’etica su misura (la misura di quella sovrastruttura), la grazia che trasfigura e che forse coincide con la vita, la compassione, la misericordia, la violenza del mondo e delle religioni, i fondamenti di cui fare esperienza senza che diventino fondamentalismi, l’universalismo e il relativismo, il modo in cui si incarnano le idee (ogni terra ha il suo terreno), il dominio sui corpi e sulle menti, l’estasi del martirio che si specchia nell’orrore della tortura, il silenzio di un Dio che forse non c’è ma anche il silenzio in cui Dio si rivela (senza il silenzio non ci sarebbero la libertà, la grazia, l’uomo), l’amare Cristo-Dio fino a identificarsi col suo volto mentre combatti l’ego che ti separa da lui (ego anche come desiderio di santità e di verità) fino a scoprire, forse, che devi separarti dalla sua immagine per trovarlo davvero, in un luogo dell’anima in cui non hai più nemmeno bisogno di nominarlo.
Ecco uno di quei film che vanno guardati due o tre volte almeno e fatti sedimentare lentamente. Credenti o non credenti poco importa (basta essere pensanti): la fatica e il mistero dell’esserci riguardano tutti. Nel silenzio.