synecdoche

synecdoche

Dostoevskij al Luna Park

Abe Lucas (Joaquin Phoenix) è uno stropicciato professore di filosofia che approda, come una barca in rada dopo una tempesta, nell’università di una cittadina del Rhode Island: ambiente ridente e liberale, prati color pastello, un fervore intellettuale che rasenta la parodia. Abe è preceduto dalla sua fama di dongiovanni alcolizzato, ma più che incutere un timore perbenista suscita fremiti aprioristici tra le impeccabili donne del posto.

Rita Richards, professoressa di chimica e moglie insoddisfatta, fantastica di lasciare la sua vita agiata per fuggire con lui in capo al mondo – riducendolo così a uno stereotipo culturale, proprio come faceva Alvy Singer con Allison Portchnick in Io e Annie – mentre Jill Pollard, studentessa pudica e brillante di buona famiglia e buone letture, mette in crisi il rapporto con il fidanzato all’alba della prima lezione.

Abe, riempiendosi la bocca di Kierkegaard e Husserl, di esistenzialismo e disillusione, conquista le due donne ma si dimostra impotente con la prima e affettatamente premuroso con la seconda, non permettendo al morboso attaccamento della studentessa di tramutarsi in qualcosa di più concreto. Abe non si concede alla vita, accetta come una penitenza l’incapacità di amare (sessualmente e sentimentalmente), affida la sua perenne condizione di disequilibrio a un libro che forse non finirà mai su Heidegger e il nazismo, succhia dalla bottiglia con riflessi pavloviani, si incunea nel sonnacchioso mondo di quella provincia raffinata come un cane che si acciambella davanti al camino.

Allen gioca nella prima parte del film a raffigurare un outsider che rovescia coordinate, che si lascia plasmare per manifesta assenza di volontà: Abe non si comporta come un pesce fuor d’acqua, è anzi vezzeggiato da un nuovo mondo che potrebbe mostrarsi ostile e invece lo blandisce e lo coccola, si adegua non per la necessità di essere accettato ma per incapacità a concepire una frizione, un conflitto reale con il mondo che abita.

Il milieu intellettuale universitario è disegnato con gesti precisi e quasi canonici: lezioni di musica, discorsi filosofici, una presenza sovraccarica del lato cerebrale in una realtà che si muove come seguendo un dettato. Improvvisamente però un discorso fortuito ascoltato in un diners, la concretezza del dolore che irrompe nel suo campo visivo, l’epifania dell’omicidio perfetto come possibilità di ricollocarsi in un mondo estraneo lo restituiscono alla vita. Il delitto appare come deliberato atto di volontà e l’improbabilità del castigo diventa un fattore dell’imperscrutabilità della morale.La realizzazione di un estemporaneo piano criminoso sblocca Abe: gli permette di mangiare, parlare, accelerare il passo e la parola, bere con più consapevolezza e parsimonia, scopare con passione prima con una e poi con l’altra donna. Tutto, ora, appare possibile. Ma qual è l’irrational Abe? Quello che si lasciava distruggere guardandosi vivere o quello che si compiace lasciandosi diventare un assassino? 

Al centro di questo magnifico conte moral antimoralista, che ribalta con uno sberleffo il cinismo utilitaristico di Match Point e che guarda al proprio passato cinematografico (Crimini e misfatti, Misterioso omicidio a Manhattan) non tralasciando tracce hitchcockiane (le teorizzazioni astratte di Nodo alla gola che diventano atti criminosi) e derive slapstick (l’ascensore che ricorda Il vedovo di Dino Risi), Allen pone una scena strabiliante e rivelatrice.

Abe e Jill, ormai confidenti e quasi amanti, passano insieme una delle prime sere successive alla trasformazione del professore in assassino. Vanno al Luna Park, luogo di svago dall’aura irrazionale, illuminato da lucine antinaturalistiche che ritraggono i due in uno stato quasi onirico. Tra un baraccone e l’altro Abe e Jill entrano nella stanza degli specchi (erano labirintici quelli di Misterioso omicidio a Manhattan, come nella Signora di Shangai, sono deformanti questi): si guardano, ridono, stentano a riconoscersi (anche se Emma Stone, anche così, sa restare bellissima), si vedono cambiati. I loro corpi, mai come in questo film riflessi dell’anima, assumono forme disumane, sconnesse, imprevedibili. Sottili verso il cielo e poi schiacciati verso la terra. È in quel momento di nanismo apparente, con la macchina da presa che li riprende dal basso, che il ghigno di Abe/Phoenix sembra raggelarsi in un rigor mortis. Nella sconnessione tra ciò che si è e come si appare si sente già, come una preveggenza da scacciare, il peso del castigo che verrà. E, in lontananza, risuona il sorriso di un autore che a ottant’anni dimostra, come un Dostoevskij intriso di umorismo yiddish, di voler ancora giocare con il baratro che separa il destino e la libera scelta, la realtà e l’apparenza, l’essenza e la rappresentazione, noi e gli altri, dipingendo la commedia umana con il pacato disincanto di un uomo saggio che sa osservare il mondo da lontano e, in fondo, ridere di e con lui.