synecdoche

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Un diamante nel cielo

Marieme vive nella periferia di Parigi – palazzoni in fila indiana, percorsi segnati, vite in fotocopia – con la madre, spesso assente per gli obblighi di un umile lavoro che la figlia non sa immaginare per sé, con il fratello, maschio minaccioso e protettivo, e con le due sorelline minori. Gioca a football americano, caschi in evidenza e aggressività compressa, va (male) a scuola, vive giorno per giorno perché il futuro non sa neanche immaginarlo.

Marieme incontra tre coetanee che all’inizio decide di ignorare (troppo aggressive, troppo intrusive, troppo altre dall’idea che lei ha di sé) ma che infine segue nei loro giri a vuoto – peregrinazioni nei soliti non luoghi della metropoli: fast food, centri commerciali, scaloni di palazzi – perché meglio inserite, apparentemente, nel contesto sociale e relazionale del quartiere.

Marieme le annusa e riconosce l’odore: Lady, Adiatou, Fily sono fatte della sua stessa pasta, hanno la stessa impellenza fisica di emergere da un’ombra indistinta fatta di compromessi e obbedienze. Si sentono diverse ma allo stesso tempo consapevoli che in una generalizzata solidarietà femminile, per quanto codificata da comportamenti e leggi, ci sia l’unica via di fuga da un’omologazione – sociale, culturale, sessuale – che il contesto impone.

Sono femmine alfa in un mondo che per le donne ha tracciata una singola strada, quella della sottomissione a delle regole che portano a un futuro da mogli e madri impotenti. Ma Marieme e le altre vogliono trovare un loro modo di stare al mondo: forse non coerente, forse non figlio di una emancipazione politicamente corretta, ma di certo frutto acerbo di personalità complesse e compiute, capaci di lottare e di rifiutare percorsi già segnati.

Inciampi del percorso: qualche furto, qualche sopruso, qualche soldo faticosamente messo in tasca. E un modo imprevisto per investire quegli spiccioli di indipendenza: una stanza d’albergo, caramelle, qualche bibita e un po’ di alcol. Sembrerebbe una forma squallida, derivativa di divertimento, ma Céline Sciamma dona alle sue protagoniste una psicologia aggressiva e indipendente che le difende da una banale analisi sociologica, miracolosamente assente, almeno nelle sue forme più didascaliche, dal racconto di Bande de filles.

Vestite di abiti rubati di discutibile gusto, con ancora addosso l’antitaccheggio – non c’è uno stile: c’è l’appropriarsi potenziale di tutti gli stili – le ragazze iniziano a intonare Diamonds di Rihanna. Lady canta, Adiatou balla, Fily le raggiunge saltellando. Nessuno le guarda, sanno guardarsi da sole. E si riconoscono.

La musica cresce, la luce che illumina la stanza è di un blu antinaturalistico, finalmente lontano dai gialli delle case e dagli azzurri del cielo sempre uguale del quartiere che le tiene in gabbia. Marieme le osserva dal letto, le studia, le capisce, sorride e si sente finalmente come loro – una di loro – nel più bel controcampo della stagione cinematografica. E poi scatta, seguendo finalmente l’impulso, il corpo, se stessa. La musica si abbassa, le voci delle ragazze che cantano sale in primo piano. Il contesto, il campo di battaglia, per un attimo, è conquistato. Le luci di un palcoscenico che non esiste stavolta sono tutte per loro.

Il miracolo di Sciamma consiste nel riuscire a costruire una scena del genere – bolla sognante in un film apparentemente realista – senza sfociare nella retorica e nella superficiale definizione psicologica e romantica dei personaggi. C’è invece un senso di commovente enfasi liberatoria, di un’intima indipendenza espressiva conquistata davanti ai nostri occhi, che sa renderci partecipi ma senza protettive o didascaliche intrusioni. Questo momento è loro, noi possiamo solo spiare. Sciamma regala spazio alle protagoniste, ce le fa intuire capaci di decidere al di là di ogni coerenza prestabilita e con ogni mezzo necessario.

Nel film il cambiamento – qualsiasi cambiamento – è sempre testimoniato da ellissi di sceneggiatura che sottolineano l’assenza di ogni necessità esplicativa, che rispettano e testimoniano con orgoglio le scelte a volte incongruenti delle ragazze. Ma è proprio con il coro liberatorio di Diamonds che Marieme riesce finalmente a sentire fisicamente un orgoglio solidale a cui non era abituata, un’identità – individuale e collettiva, monade che impara a farsi gruppo – che sa calpestare le regole creandone di nuove. Che giustifica la volubilità e l’incertezza come prassi di una vita da esperire sulla propria pelle.

Lei – in quel momento, in quella stanza, con quelle amiche – è solo quello: una ragazza che si sta costruendo, bella come un diamante nel cielo. È solamente lei, come si vede e come si sente prima di tornare nella gabbia. Un gioiello grezzo che non asseconda perché non accetta permessi; che conquista il suo corpo di giovane – donna, nera, proletaria – con un’arroganza che sa di crescita; che impara a imporre la propria presenza in un mondo che la immagina marginale; che nello scrollare le spalle in una danza testimonia urlando a tutti la propria irriducibile diversità.