Jonas Carpignano è ormai talmente affezionato a quei luoghi e a quei volti che racconta da esserne diventato parte. Con A Chiara torna nella Gioia Tauro di A Ciambra quattro anni dopo per raccontare dall’interno, questa volta, una famiglia di affiliati a una delle ‘ndrine di zona. Una sorta di ampliamento dello sguardo portato sulla medesima realtà in cui gli stessi rom entrano in scena come controcanto rispetto alla vita di Chiara, delle sue amiche e della sua famiglia. Questo rappresenta proprio Pio Amato che compare come esplicito richiamo al film precedente, come a sottolineare quella dualità solo apparentemente contrapposta. Ancora una volta infatti, al centro della storia, c’è una ragazzina che apre improvvisamente gli occhi sul mondo che la circonda con tutta la conflittualità tra un profondo senso di appartenenza e la propria visione della vita che prende forma.
Chiara non si dà pace, cammina senza stancarsi, guarda dritto negli occhi tutti quelli che le si parano di fronte nel tentativo di tenerla lontano dalla verità sul suo adorato padre, costretto improvvisamente alla latitanza in seguito all’esplosione della loro auto davanti casa. Scopre da un video su internet che quell’uomo schivo, affettuoso e totalmente votato alla felicità sua e delle se sorelle risulta essere un corriere al soldo della ‘ndrangheta. E allora vuole capire la verità. Non si accontenta di assumere la posizione silenziosa della madre e della sorella maggiore ma vuole capire come funziona quell’altro mondo di cui non aveva mai avvertito la presenza: e così si intrufola nei bunker desolati di mattoni e cemento, si avventura tra le nebbie dell’Aspromonte, si incolla alle calcagna di zii e cugini per sapere, per vedere, per scoprire una realtà mesta la cui miseria non è compensata dai denari che circolano.
Carpignano sposta dunque lo sguardo ma adotta lo stesso punto di vista scegliendo, come sempre, di stare incollato ai suoi personaggi, di guardarli così da vicino da farne sentire i palpiti, i respiri, le vibrazioni nel momento stesso in cui si trovano a dover fare i conti con la propria identità e con la possibilità, o meno, di appartenere a loro mondo di origine. Proprio questo però è anche un po’ il limite di A Chiara in cui l’unica figura a funzionare davvero è proprio la protagonista, Swamy Rotolo, capace di restituire con forza e credibilità il cammino di rivelazione affrontato dalla ragazza mentre quasi tutti i comprimari (con qualche eccezione) stentano a stare al passo. Il modo di filmare di Carpignano si conferma appassionato, sinceramente affezionato ai soggetti della sua narrazione. Languisce tra la carenza di gran parte degli interpreti e - soprattutto - le forzature di una scrittura che fa sentire una certa macchinosa restituzione degli intenti. Più che una struttura circolare infatti l’apertura e la chiusura con le due feste di compleanno speculari che pongono l’accento sul confronto tra famiglia e Famiglia, finiscono per incastrare la rappresentazione dentro una cornice bidimensionale che appiattisce il travaglio esistenziale di Chiara in una fin troppo schematica risoluzione, cui fanno da eco le incisioni della città ideale che riempiono le pareti della casa di Urbino in cui la ragazza trova, appunto, la sua seconda possibilità, la sua seconda dimensione.
La famiglia Guerrasio si riunisce per celebrare i 18 anni della figlia maggiore di Claudio e Carmela. È un’occasione felice e la famiglia è molto unita, nonostante una sana rivalità tra la festeggiata e sua sorella Chiara di 15 anni sulla pista da ballo. Il giorno seguente, quando il padre parte improvvisamente, Chiara inizia a indagare sui motivi che hanno spinto Claudio a lasciare Gioia Tauro. Più si avvicinerà alla verità, più sarà costretta a riflettere su che tipo di futuro vuole per se stessa.