Sarebbe interessate provare a capire come e perché Disney scelga i registi ai quali affidare la nuova ondata di remake in live action. È infatti evidente che il margine di intervento dei singoli cineasti sia sempre minore, quasi azzerato. Cosa c’è da aspettarsi dai vari Tim Burton, Jon Favreau, Bill Condon, Kenneth Branagh e ora Guy Ritchie? Come possono rendersi riconoscibili e quindi portare un valore aggiunto al film che stanno dirigendo?
Spunti che nascono spontanei durante la visione di Aladdin, ennesima copia carbone del classico animato strutturata esattamente secondo le medesime coordinate dei progetti precedenti: coccolare il pubblico con i brani musicali e le sequenze che hanno lasciato il segno anni fa, allungare il brodo con una maggiore introspezione dei protagonisti, rendere più “umani” i villain e puntare la comunicazione sul nome di un grande divo pagliaccione (in questo caso Will Smith) in grado di suscitare simpatia e ilarità.
Aladdin dimostra come l’unico vero regista e ideatore di tutto questo nuovo ciclo non sia nient’altro che Disney. È alla casa di Topolino che dobbiamo guardare per cercare di comprendere più a fondo questi lavori. Sarebbe troppo semplicistico e superfluo additare la crisi delle idee come causa e ragion d’essere di simili rifacimenti.
In realtà il discorso è più complesso. In anni in cui il declino della sala cinematografica sembra restituire una profonda e comune crisi identitaria in grado di stordire e disorientare molteplici soggetti (dalle case di produzione internazionali sino ai mestieranti più umili), Disney cerca di imporsi sul mercato consapevole della sua anima sempre più eterogenea e multiforme. Pixar, Fox, Lucas, Marvel: elementi diversissimi ma accomunati dal tetto che li racchiude in un solo abbraccio. Sembra quasi che la casa di produzione abbia timore di non essere più riconoscibile, di aver talmente esagerato nella sperimentazione da aver gradualmente abbandonato la sua vera anima, quella che la rese grande in tutto il mondo.
Se poi ci aggiungiamo la tendenza tutta contemporanea a rivedere il passato nel segno della malinconia, allora il gioco è fatto. In Aladdin questa componente è così importante che emerge dalle pagine di sceneggiatura aggiunte a quelle del film originale. Aladdin e Jasmine, il genio e persino Jafar sono personaggi dal passato ingombrante che cercano un riscatto, una via di fuga per imporsi in nuove vesti (chi come ancella, chi come principe, chi come dittatore e chi come essere umano), senza tuttavia rinnegare il percorso intrapreso. Disney fa propria la malinconia dei personaggi e abbraccia tanto il futuro quanto il passato: in fondo, come suggerisce il genio «la vita sarà più facile quando imparerete ad accettare le tradizioni».
A Guy Ritchie non resta altro da fare se non provare a portare in scena nella maniera più decorosa possibile un progetto oggettivamente stanco, privo di qualsiasi linfa vitale e/o creativa e che ammicca al suo cinema semplicemente nelle sequenze di azione. Eppure, anche in questi momenti è evidente il disagio provato dal cineasta britannico, già abituato a gestire budget importanti (Sherlock Holmes) ma ingabbiato in una produzione barocca e limitante, lontana dallo sguardo più sporco e crudo che da sempre ha cercato di accostare alla sua narrazione.
Il remake live action dell'omonimo film d'animazione della Disney. Nella città immaginaria di Agrabah, Aladdin è un ragazzo di strada ansioso di abbandonare la propria vita da furfante. Jasmine, invece, figlia del Sultano, desidera una vita fuori dalle mura del palazzo e sfuggire alle eccessive attenzioni del padre nei suoi confronti. L'obiettivo del Sultano è trovare un marito adeguato alla figlia, mentre il suo leale e fidato consigliere, il potente stregone Jafar, escogita un piano per impadronirsi del trono. Quando Jasmine visita il mercato travestita da popolana, Aladdin viene in suo soccorso e rimane subito colpito dalla sua bellezza, pur non avendo alcuna idea della sua vera identità. Dopo averla seguita a palazzo, viene coinvolto nel piano malvagio di Jafar ed entra in possesso della magica lampada a olio di cui lo stregone voleva impadronirsi: accidentalmente, Aladdin evoca il Genio che vive all'interno della lampada...