Approda in sala, dopo un’originale campagna promozionale online centrata sullo slogan “ogni riparazione è una piccola rivoluzione”, l’esordio nel lungometraggio di Paolo Mitton.
L’indolente Scanio (Daniele Savoca), che sbarca il lunario in una cittadina piemontese riparando macchinette del caffè e altri macchinari, è de-sincronizzato rispetto al mondo, e non se ne preoccupa affatto, a suo agio con la propria lentezza, la sua filosofia d’altri tempi, le sue abitudini eccentriche. Il racconto in prima persona porta il pubblico a empatizzare con lui, assumendolo a paradossale e straniante modello positivo, in una sovrapposizione anche tra personaggio e autore (la didascalia iniziale, al proverbiale “tratto da una storia vera”, aggiunge ironicamante “almeno, a me è successo”).
The repairman è un’apologia dell’ingenuità e della dabbenaggine di chi non è fatto per i ritmi e le scaltrezze del presente. L’inadeguatezza del protagonista, al contempo tragica e ridicola, sta già nel suo nome mutilato, Scanio senza la A iniziale che tutti tendono ad attribuirgli. A causa della sua incapacità a guardare più in là del proprio naso, anche la relazione con Helena, giovane studentessa inglese di sociologia, sembra destinata a scricchiolare.
Se rispetto al consesso sociale Scanio è quasi un disadattato, è subito chiaro che è la società a disfunzionare e avere bisogno di essere riparata: ne sono esemplari tipici i suoi amici, completamente omologati sin dalle loro quotidiane ipocrisie e meschinità. Del resto, una società che ha smarrito il valore della “riparazione” non può che essere la stessa in cui si insegna a licenziare in modo soft, il che è precisamente l’oggetto degli studi di Helena. Quando si tratta di liquidare qualcuno, Helena suggerisce di evitare di farlo attraverso una lettera (forse è meglio un’oggettiva, incontrovertibile foto?).
The repairman è un esordio promettente, pur appartenendo a un tipo di cinema che sembra volersi ritagliare nel panorama nostrano un posto volutamente appartato: assomiglia un po’ a Scanio nella sua incapacità di immaginarsi una via per il successo, fuorché nel sogno a occhi aperti in cui si vede assegnato il Nobel.
I limiti dell’operazione di Mitton non stanno tanto in ridondanze come l’abuso della dissolvenza in nero, né in piccoli difetti di sceneggiatura (la seconda parte rischia la ripetitività a causa della costante incapacità di Scanio a reagire agli eventi). The repairman mostra la corda nell’indulgenza verso un personaggio che, al di là del suo simpatico candore, non è in grado di rappresentare alternative autentiche al conformismo dominante. Mitton appare ripiegato su se stesso come sul suo personaggio, mentre la sua critica sociale tende allo stereotipo: il regista strizza l’occhio al Moretti di qualche anno fa (l’eccesso di attenzione per i neonati rimanda al secondo episodio di Caro Diario) mancando però della sottile ferocia autoreferenziale del personaggio di Michele Apicella.
Come modello, Mitton sembra guardare soprattutto a Davide Ferrario: lo stralunamento, l’inettitudine, l’eccentricità di Scanio richiamano alla mente Ugo, protagonista de La luna su Torino (pellicola anche lei del 2013). The repairman possiede ironia e levità analoghe a quelle del film di Ferrario, non sostenute però da una sceneggiatura altrettanto sfuggente, da quel “disinteresse verso il potere dispotico della narrazione” di cui parlava Adriano Piccardi (Cineforum 534), che permetteva a La luna su Torino – diversamente dall’esordio di Mitton – di fare dell’ironia e della levità la materia stessa del film.
The Repairman è la storia curiosa e ironica delle disavventure di Scanio Libertetti. Interpretato da Daniele Savoca, Scanio è un ingegnere mancato che si guadagna da vivere riparando macchine da caffè.