«Beetlejuice. Beetlejuice. Beetlejuice». Quando lo “spiritello porcello” interpretato da Michael Keaton fu invocato per la prima volta su grande schermo, il mondo intero scoprì la folle e geniale creatività di uno dei registi più talentuosi, amati e influenti degli ultimi decenni. Con Beetlejuice, Tim Burton firmava nel 1988 una delle sue opere più anarchiche e travolgenti, che spalancava le porte della sua personalissima e sorprendente visione del mondo. A riviverla oggi, dopo 36 anni, quella libertà espressiva così straripante e sregolata appare come un miracolo irripetibile sia che la si guardi mettendola in prospettiva con la carriera di un regista che ha perso ormai la brillantezza della sua prima fase, sia proiettandola sull’industria cinematografica contemporanea, sempre più incapace di concedersi il rischio di sorprendere davvero.
Beetlejuice Beetlejuice, film d’apertura dell’81ª Mostra di Venezia, si presenta sulla carta come l’ennesima operazione commerciale – cosa che in parte ovviamente è – che mescola elementi di un immaginario di culto alla moda seriale contemporanea (Wednesday), affidandosi a un regista “costretto” dalle circostanze produttive a lavorare da quasi vent’anni sul proprio brand più che sulle proprie idee. Eppure Tim Burton, che ripropone qui il primo sequel di una propria invenzione - riesce forse per la prima volta dopo il tonfo di Alice in Wonderland (2010) a imprimere alla propria visione una prospettiva inedita.
Sentire oggi pronunciato per tre volte il nome di Beetlejuice sortisce un effetto diverso rispetto ad allora; forse meno brillante, ma sicuramente più teorico. Rievocare su schermo quel demone scatenato significa prima di ogni altra cosa dover fare i conti con i fantasmi del passato. Tutte quelle idee vulcaniche che un tempo scatenavano un caos pieno di vita, si sono oggi trasformate in un’ossessione che impedisce ai personaggi di guardare avanti. Burton riflette su quella che è stata la propria visionaria lettura del mondo, moltiplicando le linee narrative, mettendo a confronto tre generazioni diverse e portando avanti attraverso ogni singolo personaggio una riflessione personale sul presente. In Beetlejuice Beetlejuice Burton racconta quindi del passato che ritorna, ma anche di amori letali (divertente in questo senso il casting di Monica Bellucci), di talenti sfruttati (un’ossessione di tutta la sua produzione recente, da Big Eyes a Dumbo), di destini beffardi e di una realtà in cui i confini tra gli elementi sono sempre più sottili.
D’altronde Beetlejuice Beetlejuice ha un titolo doppio perché è un film che lavora costantemente per dicotomie contraddittorie, sempre in bilico tra la vita e la morte, tra il passato e il presente, tra la realtà e la finzione, tra il sogno e l’incubo. In questo senso Burton sottolinea per l’ennesima volta che il cinema e il mondo dei morti sono due spazi che in qualche modo convivono e si nutrono allo stesso modo dell’energia del passato. Forse tornare a fare i conti con ciò che ci siamo lasciati alle spalle è l’unico modo per riuscire a guardare avanti con rinnovata energia; e a tutti quelli che vorrebbero dal regista di Mars Attacks! un ritorno alla creatività straripante di una trentina d’anni fa, lui risponde che quel mondo non c’è più, ma al contempo ci sarà sempre. Oggi ha semplicemente un’energia e un significato diversi, ma resta sempre un cinema fatto di meravigliosi incubi da cui non vorremmo mai svegliarci.
Dopo una tragedia familiare inaspettata, tre generazioni della famiglia Deetz tornano a casa a Winter River. Ancora tormentata da Beetlejuice, la vita di Lydia viene sconvolta quando sua figlia adolescente e ribelle, Astrid, scopre il misterioso modello della città in soffitta e il portale per l'Aldilà viene accidentalmente aperto. Con problemi in arrivo in entrambi i regni, è solo una questione di tempo prima che qualcuno pronunci il nome di Beetlejuice tre volte e il demonio dispettoso torni a scatenare il suo particolare caos.