Da qualunque parte lo si guardi, è lo Shyamalan che non ti aspetti. Se lo si considera ancora un maestro (benché acciaccato) del thriller fantastico, si attende invano il momento in cui il twist, come ai vecchi tempi, sovverta la situazione e sorprenda, provocando la sua solita soddisfazione spiazzante. Se invece si è convinti che Shyamalan abbia da tempo imboccato una china ormai irreversibile di mediocrità, condita con punte altrettanto sorprendenti di incoerenza, diciamo da L’ultimo dominatore dell’aria in avanti, si rimarrà ugualmente colpiti dal fatto che il punto esatto in cui gli intrecci dei suoi film franano inevitabilmente su se stessi, seppur atteso da un momento all’altro, alla fine non giunga davvero mai.
Ciò che contribuisce alla coesione di questa operazione del regista di origine indiana è la compattezza del soggetto, tratto dal fortunato romanzo di Paul Tremblay pubblicato nel 2018, La casa alla fine del mondo, interamente ambientato in un fabbricato immerso nei boschi (qua Pennsylvania, nel romanzo New Hampshire), condito dall’assurda premessa che ne è alla base: fidandosi unicamente delle parole di un quartetto di bizzarri sconosciuti, sacrificare uno dei propri cari per evitare l’apocalisse. Nelle mani di Shyamalan, il romanzo di Trembley diventa un opprimente Kammerspiel rurale, screziato qua e là da flashback che hanno la duplice funzione di accrescere l’identificazione con l’armonia della famiglia, mostrata nei momenti di formazione e felicità domestica, e di aprire il varco alla possibilità che quella che, almeno nelle prime sequenze del film, appare come un’aggressione in un luogo isolato da parte di maniaci assassini, sia in parte giustificata dall’omofobia di uno di essi (tra l’altro interpretato da Rupert Grint, una volta il Ron Weasley di Harry Potter).
Perché tutto inizia con una bambina di sette anni rimasta sola in un bosco e intenta a catturare cavallette (un inside joke del regista rispetto alle piaghe ben più temibili che si vedranno in seguito), avvicinata da un energumeno comparso dal nulla con le fattezze di Dave Bautista, Leonard nel film. Se non si trattasse di Shyamalan si penserebbe immediatamente a una versione riveduta e corretta di Cappuccetto rosso, perché Bautista si rapporta in modo paziente, quasi mellifluo con la bambina, cosa che potrebbe essere un’aggravante, come la gentilezza del lupo, ma si è pur sempre in presenza di un simpatico Guardiano della Galassia, il quale, a scanso di ulteriori equivoci, inforca anche un paio di occhiali professorali. Dopo un momento di straniamento, accresciuto dallo stile adottato dal regista, che riempie tutto il formato panoramico dello schermo con i volti dei due personaggi, schiacciato quello della piccola Wen, incombente il testone di Bautista, si comprende come il sospetto di perversione che pur il film sollecita sia diretto verso una dimensione più ampia e paradossale, come da costume di Shyamalan, sospesa tra il ribaltamento dell’apparenza iniziale e il pericolo della dissoluzione dell’intero mondo.
La consueta dimensione massimalista, tuttavia, in questo caso è tenuta a bada con una regia tesa, in una narrazione a tratti surreale, perché basata interamente su una pretesa impossibile, di spuria natura cristologica: sacrificare improvvisamente la propria serenità per un destino esorbitante, quello dell’intera umanità, l’esatto opposto della dimensione isolata e raccolta che la famiglia formata da Eric (Jonathan Groff, uno dei due detective di Mindhunter) e Andrew (Ben Aldridge) aveva progettato per il suo periodo di vacanza. Shyamalan, si sa, si pone sempre come salvatore del mondo, laddove invece il romanzo di Trembley difendeva fino alla fine la dimensione privata della coppia, facendola fuggire priva della figlia e incurante di tutto ciò che sarebbe potuto accadere come conseguenza del suo rifiuto al sacrificio.
Coerentemente con se stesso, il regista preserva invece la dimensione dell’infanzia e si libra verso un nuovo futuro possibile, anche se non privo di alcune ambiguità. Per giungere a questa eventualità divergente dal libro, organizza una messa in scena sovraccarica, che pare priva di immagini neutre, perché tutte appaiono marcate da una volontà espressiva sempre sopra le righe. I primissimi piani riempi-schermo a cui abbiamo già accennato palesano la volontà di mettere pressione visiva attraverso la preminenza dei corpi, cercando di illustrare la soggettività degli aggrediti e l’esiguità delle possibilità di salvezza. I piani sghembi, spesso inclinati, lavorano sullo stesso versante, sottolineando la mancanza di equilibrio in una messa in scena irregolare, studiata appositamente per generare ansia all’interno del quadro e nel rapporto tra i soggetti ritratti in inquadrature conseguenti. L’irregolarità nella composizione del piano si riverbera poi, ulteriormente, nella scelta di ricorrere a fuoricampo parziali, che nascondono l’orrore ma ne rivelano le nefaste e dirette conseguenze, con la chiara intenzione di sostituire al raccapriccio l’angoscia di una situazione claustrofobica, impossibile da risolvere.
Diversamente da ciò cui ci ha abituati, Shyamalan non ribalta e non sorprende, non ci tenta nemmeno, invece, pazientemente, intreccia e costruisce, soffoca e inquieta, destrutturando attraverso le immagini un quesito irriducibile calato in una situazione totalmente folle. La vera sorpresa è che sia riuscito ad arrivare fino al termine del film con un’apprezzabile coerenza, senza eccessivi sfondoni.
Mentre sono in vacanza in una baita isolata, una giovane ragazza e i suoi genitori vengono presi in ostaggio da quattro sconosciuti armati che chiedono alla famiglia di compiere una scelta impensabile per evitare l'apocalisse. Con un accesso limitato al mondo esterno, la famiglia deve decidere in cosa credono prima che tutto sia perduto.