C’è la buona volontà, certo. C’è la generosità, anche, e ci sono le ossessioni, come dice la regista e attrice libanese Nadine Labaki, che per costruire il suo ultimo film Cafarnao ha cominciato scrivendo sul tavolo del salotto le parole e i temi che in quel momento più la interessavano e, per l’appunto, ossessionavano. Ne è venuto fuori un capharnaüm, un insieme confuso dal quale il film ha cominciato a costruirsi e che la sceneggiatura, completata con Jihad Hojeily e Michelle Kesrouni, non ha saputo e forse nemmeno voluto districare.
Il film è costruito come lungo flashback avviato da una parte processuale(più volte ripresa durante il racconto) e da due parti distinte. L’attacco è diretto: il dodicenne Zain, arrestato per aver accoltellato un uomo, denuncia i genitori per averlo messo al mondo e non aver saputo garantire a lui e alle sorelle una vita decente. Dal suo racconto si viene a sapere di come sia crescito in una famiglia numerosa e poverissima, costretto a vivere per strada e a racimolare spiccioli in qualsiasi modo; di come i genitori abbiano venduto l’adorata sorella maggiore a un laido commerciante e di come lui sia fuggito di casa per la rabbia; di come, poi, sia sopravvissuto in una città gigantesca e caotica grazie all’incontro con l’immigrata etiope Rahil e il suo piccolino Yonas; di come Rahil un giorno sia scomparsa nel nulla e dunque sia stato costretto a badare a un bimbo di un anno; di come, ancora, al culmine della disperazione sia stato costretto anche lui a vendere il bambino e abbia poi fatto ritorno a casa, scoprendo la più orribile delle verità e decidendo infine di compiere un disperato gesto di vendetta.
Due storie speculari, dunque, con particolari e situazioni che ritornano (una cosa molto di moda, oggi, nella costruzione delle sceneggiature), in cui il povero Zain, in un certo senso il contraltare del Lazzaro di Alice Rohrwacher, un vinto che non accetta la sua condizione di eterna subalternità, è sia vittima delle azioni degli altri sia responsabile delle proprie; mai colpevole, però, perché spinto dal contesto sociale a prendere decisioni impossibili per la sua età.
L’apologo è ovviamente morale, con tanto di declamazione finale del piccolo protagonista, che di fronte alla Legge inveisce contro i genitori e la miseria. Il problema, però, è facilmente di ordine stilistico, con la regista che ci mette cuore e anima, impegno e pazienza (molte scene sono giocate sulla reiterazione di rumori, pianti, violenze, ingiustizie), ma non va oltre un realismo estremo con immancabile camera a mano e un ricorso greve e ricattatorio a ralenti, droni, riprese dall’alto e musiche pompose per dare una pausa al racconto e renderlo meno asfissiante.
In certi momenti si intravede una dote registica non scontata, con il montaggio che dà alle scene un ritmo incalzate, frenetico come la vita del piccolo Zain, ma via via che ci si avvicina alla soluzione del processo e alla fine il tono del flm si fa sempre più drammatico e inevitabilmente consolante, dando l’impressione che in mezzo a questo capharnaüm di buone intenzioni, di temi forti, volti innocenti, parole e immagini retoriche, la regista abbia voluto ritagliarsi uno spazio nel cinema d'autore che ancora le mancava, girando il classico film impegnato e un po' ricattatorio a cui difficilmente, come confermano il Premio della giuria a Cannes e la nomination agli Oscar, il sistema riesce a resistere.
La storia del piccolo Zain, bambino di Beirut che ha deciso di ribellarsi al suo destino e ha portato in tribunale i suoi stessi genitori. L'accusa è di averlo abbandonato a una vita di miseria e sofferenza, in una città caotica, sporca, devastata e devastante.