Cattive acque si colloca all'interno della tradizione del miglior cinema d'impegno civile americano, lungo quella scia che da Alan J. Pakula arriva fino a Steven Soderbergh (Erin Brokovich) e Michael Mann (Insider - Dietro la verità). Il suo cuore, però, batte in controtendenza rispetto alla morale americana e al senso di giustizia consolatorio con cui di solito si concludono questi film, auspicando cioè un barlume di speranza a chi ancora crede che non tutto il male viene per nuocere.
C'è, infatti, sottotraccia, una vena nera e putrescente, in Cattive acque, un retrogusto malsano, che ricorda vagamente quel senso di disagio che riuscivano a trasmettere – e ancora ci riescono – certi film non allineati e arrabbiati degli anni '70. Questo sentore, nel film di Todd Haynes, prende forma nelle riprese sgranate da horror low budget girato in videotape (siamo pur sempre nel 1998 quando la vicenda ha inizio) che l'agricoltore Wilbur Tennant (Bill Camp) mostra all'avvocato Rob Bilott come inconfutabile prova dei danni irreparabili all'ambiente provocati dall'azienda chimica DuPont nell'area circostante la sua fattoria.
Prendendo spunto da un lungo articolo pubblicato nel 2016 dal New York Times Magazine, il film di Todd Haynes ricostruisce con dovizia di particolari e un ritmo davvero incalzante, la vicenda giudiziaria lunga 20 anni (e tuttora in corso) che ha visto Bilott, avvocato aziendale socio di un importante studio legale di Cincinnati e (oggi) attivista ambientale, portare sul banco degli imputati un colosso dell'industria chimica, per giunta suo cliente.
Il capo d'accusa è pesantissimo. La DuPont, infatti, nell'arco di quasi un secolo, ha sversato nel terreno e nelle acque di una popolosa area rurale del West Virginia una quantità incalcolabile di scorie e liquami tossici che un po' alla volta hanno contaminato abitanti, animali e vegetazione, con conseguenze a dir poco catastrofiche: tumori, mutazioni genetiche, malformazioni, infertilità. E chi più ne ha più ne metta, al punto che quasi si stenta a credere che la portata di tale catastrofe è paragonabile a quella di Chernobyl o agli esperimenti da laboratorio sull'uomo operati dai nazisti e da altri regimi totalitari. Solo che le cavie, in questo caso, altri non sono che gli ignari impiegati stipendiati dalla DuPont.
Che il film abbia un andamento da film dell'orrore e che l'esito della vicenda, per quanto dia ragione a Bilott e ai circa 70.000 abitanti del West Virginia da lui difesi in tribunale, non sia propriamente consolatorio, Haynes lo mette in chiaro fin dall'inizio. Con quel bagno al chiaro di luna nelle acque limacciose di un laghetto su cui si affaccia il perimetro inespugnabile del complesso industriale del distaccamento incriminato della DuPont.
E sai mai che non ce ne rendessimo conto, Haynes lo sottolinea ulteriormente, inserendo a più riprese dei contrappunti visivi ed emotivi che servono a tenere alta l'atmosfera tesissima da pandemia incombente e da paranoia cospirativa collettiva. Penso alle riprese aeree della città di notte con i suoi abitanti inconsapevoli, mentre Bilott (interpretato da un bravo e imbolsito Mark Ruffalo, anche produttore della pellicola) lavora incessantemente, solo contro tutti, mettendo a rischio la propria salute, il proprio matrimonio e la propria reputazione, a costo di portare alla luce l'immane scandalo e rendere giustizia alle vittime. Ma ci sono anche quegli inserti grandguignoleschi dell'abbattimento del bestiame contaminato o degli organi ingrossati degli animali, intaccati e resi rabbiosi da infezioni tumorali marcescenti. O, ancora, il dettaglio ripreso con panoramiche al ralenti dei denti anneriti dei bambini che giocano per strada.
Con abile maestria, Haynes allarga un poco per volta le implicazioni cancerogene di cui si è portatrice la DuPont dal focolaio circoscritto del West Virginia al 99% della popolazione terrestre. Come se non bastasse, infatti, è proprio la DuPont, questa multinazionale plurimiliardaria, ad aver creato il Teflon, un polimero artificiale impiegato inizialmente come isolante in ambito bellico e successivamente introdotto nelle case e nei ristoranti di tutto il mondo in quanto sostanza dalle proprietà antiaderenti.
Perfetta, quindi, per le padelle da cucina, ma anche estremamente tossica. Ecco allora che, se con l'epidemia di Coronavirus in corso Cattive acque risulta ancora più profetico e spaventoso, il monito di cui si fa portavoce suona anche come un sommesso canto funebre rivolto alla razza umana e al nostro pianeta, sempre più trasudante inquinamento e malattie.
La storia vera di Robert Bilott, avvocato protagonista di una estenuante battaglia legale lunga diciannove anni contro il colosso della chimica DuPont. A partire dalla denuncia di un contadino del West Virginia, Bilott, membro del consiglio d'amministrazione di un importante sociaetà di avvocati, rappresenterà 70 mila cittadini dell'Ohio e della Virginia, la cui acqua potabile era stata contaminata dallo sversamento incontrollato di PFOA (acido perfluorooctanico). E grazie a uno studio tossicologico sulle vittime, riuscirà a dimostrare i rischi per la salute associati alla contaminazione delle acque e otterrà per tutti un risarcimento.