Esiste una combinazione ineccepibile in Dahomey tra l’evento reale e la sostanza profondamente mistica che lo trascende. Il ritorno in Benin nel 2021 di ventisei esemplari fino ad allora custoditi al Musée du quai Branly di Parigi, bottino dell’ottocentesca guerra di colonizzazione ai danni del Regno di Dahomey, è solo il punto di partenza che l’autrice francese di origini senegalesi Mati Diop, Orso d’oro all’ultimo Festival di Berlino, restituisce con puntigliosa e analitica consequenzialità fattuale; poiché lo fa suggerendo proprio tra le pieghe dell’ortodossia esplicita del dato reale, al culmine della sua ritualità burocratica, l’impossibilità di fermarsi all’evidenza, alla superficie, al susseguirsi del passaggio indolore e istituzionale di consegne tra la Francia e l’ex Dahomey del titolo, oggi Benin, tra una Parigi notturna inaugurale del barcone che solca la Senna e la destinazione finale a Cotonou dove avviene l’allestimento pubblico degli storici oggetti parlanti.
Come emerge nel dibattito che si sviluppa successivamente all’università di Abomey-Calavi, gli accadimenti da soli non bastano a dire quel che c’è dietro le immagini e dietro temporalmente nella coscienza collettiva di una nazione derubata di qualcosa di più di ventisei artefatti tradizionali. La voce interiore assegnata in Dahomey direttamente alle opere che dialogano idealmente a distanza dimensionale con gli studenti, ma anche con lo sguardo dello spettatore e uditore esterno dimostra la capacità del film di eccedere la misura del documentario per farsi veicolo di una spiritualità non rappresentabile per immagini in movimento. L’immaterialità del quadro, quando ad esprimersi sono gli oggetti del trascorso contendere cruento e predatore, è la prova dell’indicibile che nessun’opera audiovisiva può più restituire, a fronte della restituzione materiale di simulacri di un passato ancora irrisolto.
Più Dahomey si concentra sulle cose concrete, dal passaggio di consegne da un museo e da un continente all’altro, intrecciando scorci di una società mutata come quella della capitale economica e non politica del Benin, e più questa possibilità dall’esterno si rende insostenibile, necessitando piuttosto di una compensazione interna, evocativa, che per via sovrumana spiega un disagio strutturale. Mati Diop costruisce con i pezzi, in tutti i sensi, della realtà, colta nella sua impeccabile e metodica ufficialità, un manifesto che sconfessa di fatto il cinema del reale come categoria conoscitiva, procedendo ad una sua intima, virtuosa e definitiva destrutturazione.
Attingendo ad una cultura di matrice antagonista al razionalismo occidentale e pur contemperando l’uso dialettico, plurale e dibattimentale della parola, connessa peraltro a uno scenario evoluto sul piano forse del ben-avere e non del benessere, la parabola di Dahomey invoca radici, questioni e sottotesti altri, di lunga e incalcolabile durata; le tracce dotate di voce propria fanno il punto sull’impossibilità attuale di cercare le risposte nell’immaginario filmato e nell’oggettualità museale, ma non si può che accettare come marchio dell’incerta contemporaneità il debito incolmabile contratto a monte con i fantasmi di un lontano/vicino misfatto che agisce come funesta profezia sul futuro, ipotecandone gli sviluppi.
Il viaggio di 26 tesori reali saccheggiati dal Regno del Dahomey, esposti a Parigi e ora restituiti al Benin. Diop dà voce artisticamente alle richieste di una nuova generazione.