«Questo misero modo / tegnon l’anime triste di coloro / che vissero sanza infamia e sanza lodo. […] Fama di loro il mondo esser non lassa / misericordia e giustizia li sdegna / non ragioniam di lor, ma guarda e passa» (Inferno, Canto III)
Sfuggendo il consiglio del mentore dantesco, Edoardo de Angelis con la sua seconda fatica cinematografica (dopo Mozzarella Stories) lascia ogni speranza e sfonda il varco avernale per soffermarsi e guardare negli occhi i dannati per ignavia.
Ad attenderlo nel girone che dipinge i suoi contorni con l’aspetto di una Napoli lontana dalla storia e vicina alla Berlino di Potsdamer Platz un intrepido Luca Zingaretti, che vesti i panni dell’avvocato d’ufficio Demetrio Perez. Uomo senza qualità, inetto alla Zeno, Perez trapianta nel postmoderno un topico archetipo della letteratura novecentesca e non solo. Inerte, trascina nel tempo la sua anonima vita, dimidiata tra casa e Palazzo di Giustizia, lontani solo qualche metro tra loro (sui lati di un fatiscente parallepipedo unico teatro dell’intera scena). Personaggio riempito di vuoto, non sovverte la sua totalizzante apatia nemmeno nel dialogo con la figlia Tea (Simona Tabasco), che con la solipsistica voce over ripete essere suo unico “Dio” (come peraltro testimonia la scelta filellenica del nome) e ragione di vita.
Apparente punto di svolta, tangente al moto circolare uniforme, la causa che coinvolge l’avvocato nella difesa di un criminale deciso a collaborare con la giustizia attraverso i mezzi della camorra. Perez sottoscrive un patto luciferino nella speranza di salvare Tea dall’amore criminale di Francesco Corvino, interpretato da un Marco D’Amore che forse nemmeno si accorge di aver cambiato set da Gomorra.
Ed ecco emergere una delle molte criticità della pellicola: figlio fratello di un prolifico filone del cinema italiano che mette a fuoco i temi della criminalità organizzata, il film costruisce una storia forse collocabile nell’episodicità incessante della lunga serialità televisiva ma di certo non del tutto efficace sul grande schermo.
La regia si nasconde impalpabile dietro la decadenza dei vetri che fantasmagoricamente assorbono le ombre delle vite: l’empatia tra uomo e ambiente circostante, rimarcata dalle molte panoramiche e dai plurimi piani d’ambientazione (che nel ruolo del contraddittorio sembrano citare i volumi de La grande bellezza), i parallelismi linguistici che agli occhi dell’attento spettatore sono sempre stuzzicanti (ma anche sempre “già visti”), le iterate inquadrature dal dietro e dal basso, seppure di pregevole fattura, non bastano a sostenere un impianto narrativo che spesso manca di sostanza e sbatte contro gli specchi di una giostra labirintica che inciampa su sé stessa.
Nella terra di mezzo tra dramma e noir, thriller d’azione e thriller psicologico, Perez rimane in bilico nel limbo dell’inferno, racconta la sua piccola storia e torna a bruciare nella sua fiamma. La sponda dell’Acheronte è ancora troppo vicina, per transitare dall’ignavia all’azione ci sarebbe bisogno di molta più luce.
Napoli. Perez è un avvocato d’ufficio. Poteva essere un grande uomo di legge, ma la paura lo ha fregato. Ha sempre considerato la sua condizione mediocre un efficace riparo dall’infelicità. Quando il pericolo si insinua in casa sua, scopre fatalmente che non è così. Incalzato dagli eventi, nello strenuo tentativo di difendere la vita di sua figlia, fidanzata con un pericoloso criminale, infrange ogni regola e legge.