«Guardare, fotografare, raccontare le cose che vediamo». Basterebbe questa frase, pronunciata in apertura da Cecilia Mangini, a riassumere la vita di una delle figure più importanti del cinema italiano degli ultimi decenni.
Due scatole dimenticate - Un viaggio in Vietnam, ultima intensa opera della prima documentarista donna italiana, realizzato a quattro mani col regista Paolo Pisanelli, si apre con la veduta aerea di un’alba. La luce, catturata al suo sorgere in un cielo tetro, sbirciata nel fuori fuoco di un lume di candela, filtrata dai buchi di una tapparella, funge da filo conduttore narrativo, da protagonista invadente e onnipresente di quest’opera raffinata. È la luce che invade l’otturatore e che da vita al cinema nella sua dimensione più povera e pura, passione totalizzante di una vita spesa alla ricerca di qualcosa di più profondo della verità, qualcosa che solo le immagini possono rivelare.
Il film è innanzitutto la storia di un viaggio rievocata attraverso un tragitto tortuoso nel buio dei ricordi, rischiarato dal ritrovamento di due scatole di scarpe piene di negativi fotografici 6x6, tracce di tre mesi spesi in Vietnam assieme al marito e regista Lino Del Fra nel 1965. Le istantanee catturate da Cecilia Mangini durante i sopralluoghi nel Vietnam del Nord formano un mosaico visivo in cui il reale della guerra lascia spazio al fantastico di un popolo che non si rassegna al ruolo di vittima.
Le immagini scorrono in sequenza, colmano i vuoti della memoria e prendono il sopravvento sul costrutto cinematografico, plasmandone il ritmo. Ad accompagnare le testimonianze visive, il testo del trattamento francese del film mai realizzato e una sonorizzazione quasi iperrealista, ruvida e affollata, che sposta la focalizzazione uditiva indietro di cinquantacinque anni e trasporta noi spettatori, come Cecilia, nel qui e ora di quel viaggio.
L’interazione tra sonoro e reportage, con l’inquadratura cinematografica che muove, ritaglia e agita a piacimento le fotografie, restituisce un effetto di vicinanza allo spettatore, un’illusione di contatto. È la stessa illusione del ricordo, investigato anche lui come fosse un paese lontano e sconosciuto, alla ricerca di quegli odori di spezie e di quelle voci di bambini. La memoria è in fondo, il filo narrativo parallelo di quella che è, in primo luogo, una storia di azione e resistenza.
Cecilia Mangini la indaga dialogando con il suo vissuto, affidandosi al mezzo con cui ha catturato il mondo per una vita intera, e che ora è pronto a guidarla, perché, alla fine, come dichiara lei stessa: “la fotografia recupera tutto”. In questo senso, Due scatole dimenticate - Un viaggio in Vietnam è una soggettiva del ricordo, un atto di amore per il mezzo, declamato attraverso il ritratto di un paese affascinante. Più la luce del ricordo illumina nuove scene di vita, più la narrazione si frammenta e si moltiplica, spezzata dal ritmo sempre più serrato delle bombe americane e da quello sofferto della narrazione della documentarista. Ma dalla frammentazione del passato, si va a ricomporre l’inquadratura di un paese complesso e contraddittorio.
Quella che in apertura appariva come un’immagine enigmatica, una traccia circolare e buia di misteriosa provenienza, scopriremo essere il primo piano della bocca di un cannone antiaereo, paradossalmente collocato nel paesaggio campestre di in una risaia. È proprio questa dicotomia tra tragicità della storia e semplicità quotidiana, a conferire una nota di meraviglia alla fotografia del reale di Cecilia Mangini. Nei suoi scatti, quello vietnamita è un popolo che non si rassegna a spegnere le luci di festa, che continua a scavare nelle miniere di Hong Hai, a sfoggia con fierezza la divisa del combattente. Un popolo, che già temprato dalla drammatica colonizzazione francese, vive con dignità la tragicità del conflitto. La crudele invasione americana, finì per colpire a suon di bombe anche il progetto cinematografico della regista, rimpatriata assieme al marito, come tutte le altre delegazioni presenti sul territorio.
Quei negativi Rolleiflex e Ikonta riemersi dal passato, si sono fatti strada in mezzo a una vita affollata di volti, opere e progetti, concretizzati dalla casa colma di oggetti e di passato nella quale Cecilia Mangini si aggira in punta di piedi. La resistenza è dunque, non solo quella civile e armata dei vietnamiti, ma anche quella storica e temporale del documento visivo, che si fa protesi mnemonica per l’essere umano, smettendo di essere una presenza fantasmatica dai bordi sfocati e diventando reale testimonianza. In quest’opera delicata e malinconica risiede l’essenza del lavoro immenso di Cecilia Mangini. C’è il pensiero d’artista rivolto al mezzo, qui potentemente ibridato tra fotografia e cinema: la Rollei col suo scattare nascosto, garantisce una visione spontanea della fotografia, che altro non è che la cellula primaria del cinema del reale.
Ma in Due scatole dimenticate - Un viaggio in Vietnam, echeggia anche una vita personale, con i suoi vuoti di memoria e le sue passioni. È un’opera testamento paradossalmente aperta, senza punto, in grado di condensare in soli cinquantasei minuti, la passione civile e politica e lo sguardo intimo ed esistenziale, come fossero una cosa sola. Sul finire del documentario, emblematicamente, lo sguardo all’umano: il rapporto che si instaura tra obiettivo fotografico e soggetto, i sorrisi delle donne lavoratrici-combattenti e gli occhi vellutati e attenti dei bambini accorsi a curiosare, gli occhi senza memoria dell’infanzia.
Tra il 1964 e il 1965 i registi Lino Del Fra e Cecilia Mangini hanno vissuto per tre mesi nel Vietnam del Nord, all’epoca in guerra con gli Stati Uniti, per i sopralluoghi di un film dedicato a un popolo in lotta per l’unità e la propria indipendenza. Ora, dimenticate per più di cinquant’anni in un vecchio armadio in soffitta, due scatole da scarpe piene di negativi fotografici sono state inaspettatamente ritrovate. E ne è nato un film da camera che racconta di una guerra, della memoria che svanisce, di una sfida contro il tempo che passa.