Non è un documentario tradizionale Eleonora Duse – The Greatest, né poteva essere diversamente poiché segna il debutto dietro la macchina da presa di una delle più preparate attrice e intellettuali del teatro e del cinema italiano come Sonia Bergamasco. Complice il sottotitolo, potremmo definire il suo film, in un conguaglio continuo tra testimonianza e transfert divistico, la traduzione in immagini del superlativo assoluto e corale che alla Duse viene attribuito mediante un consapevole procedimento audiovisivo, capace cioè di riflettere la sua volontà inversamente proporzionale di giocare in sottrazione e in sordina. Lungi dall’esporre e perciò significare il suo lato privato, “la” Duse, con l’articolo che per antonomasia le spetta contro ogni tentazione politicamente corretta odierna, sceglie categoricamente di destinare solo la sua paradigmatica arte recitativa alla rappresentazione, contemperando il valore aggiunto dell’austerità ricercata, studiata e perfezionata.
Il personaggio della diva assente e quasi invisibile, a dispetto di una celebrità senza pari, diventa quindi la molla che innesca una ricerca senza posa trasformando Sonia Bergamasco in una detective pronta a intervistare di persona gente comune ed eminenti studiosi, attori e conoscenti, raccogliendo e ricomponendo materiale d’archivio, senza rinunciare a nessun indizio o traccia, compresa la perizia calligrafica. Il puzzle di voci, immagini, apparizioni sovrannaturali viene progressivamente ordito e sgomitolato sempre con la tensione inesausta di chi insegue un fantasma in cui agisce a tempo indeterminato un principio assoluto di rigore, intransigenza protofemminista, potenza creativa e rinuncia per intima coerenza alle sirene futili del potere mediatico. Della Duse si parla e si vede tanto in questo film, rievocata con dovizia in tutte le sfaccettature e performance, mentre il gioco di sovraimpressioni per colmo di paradosso ne restituisce l’implicita e quasi diafana, orgogliosamente imbiancata dimensione fantasmatica, consona quindi a quel significante cinematografico adoperato qui con cognizione di causa. Il cinema che interroga il cinema fa da preciso sottotesto a Duse – The Greatest, a dispetto del solo esperimento filmico della diva eternata che è Cenere (1916) di Febo Mari, in deroga a un diniego in cui era incorso il decano della storia del cinema americano, David Wark Griffith.
La protagonista dunque c’è sullo schermo di Duse – The Greatest, eppure sfugge in continuazione all’alveo consueto che potrebbe restituirne una chiosa riduttiva. C’è, ma nella misura in cui si dà a vedere e udire in modo eccentrico o sfumato, con tanto di registrazione audio irrimediabilmente perduta quale quella di Thomas Alva Edison. Appare, scompare e ricompare Eleonora Duse, scovata ovunque da Sonia Bergamasco tra Europa e Stati Uniti, Parigi e Chioggia, New York, Vigevano e Asolo, suo fatale ultimo luogo di “asilo” ed “esilio” dalla società dello spettacolo. In lei, come immediatamente spiega Annamaria Andreoli, si esprime ante litteram l’istanza dai contorni ineffabili di un prototipo di femminismo orgoglioso di capelli imbiancati e rughe ostentate, sintomatici elementi di contrappunto elaborato nella complessa cornice dell’epoca a dominanza maschile. Ed è da questa premessa, implicita anche nella rivendicazione della “bocca amara” quale massimo momento in cui la “Grandissima” si sottrae al plauso dal palcoscenico, che si gioca la sua partita di perfetta “figura dell’assenza”, per usare dichiaratamente la categoria di Marc Vernet applicata alle modalità di costruire “l’invisibile al cinema”. Ed è proprio alla sua versatile invisibilità che da regista Sonia Bergamasco punta. E compenetrandosi la sviscera, tra la scena in cui udirla è stato per molti spettatori una sfida percettiva, al senso e ai sensi, e lo schermo “muto”; tanto da tradursi spesso anche in voce e acusma a un tempo della perfetta assente, compensata da parole e scritti qui letti o recitati.
In veste dunque di dir-actress, l’autrice di Duse – The Greatest può permettersi di chiamarla semplicemente con il nome proprio e confidenziale di “Eleonora”: e lo fa innanzitutto interiorizzandola completamente, come in uno specchio dove è lecito condurre a largo spettro l’indagine su un eccellente e coerente spettro femminile di lunga durata, capace senza soluzione di continuità di dissuadere o ispirare il mestiere di interprete. Sfidando i surrogati della memoria e violando lo specchio d’acqua lagunare, a cominciare dall’occasione generazionale ed edipica di Luchino Visconti di poter ammirare in compagnia di sua madre la divina Duse, il percorso del film si fa dal principio intimo e volentieri mistico. Nel far “sua” Eleonora, Sonia la intercetta e condivide con Annamaria Andreoli e Luchino Visconti intervistato da Lilla Brignone, in prima battuta; quindi direttamente o indirettamente con il mosaico composto da surrogati scultorei, filmici e fotografici, montati con i contributi umani che nella ricomposizione di un muliebre enigma diuturno intrecciano viventi e trapassati, Gordon Craig e Charlie Chaplin, Sarah Bernhardt, Carmelo Bene e Lee Strasberg, Ferruccio Marotti e Fabrizio Gifuni, Ellen Burstyn ed Helen Mirren, Emma Gramatica e Valeria Bruni Tedeschi, Elena Bucci, Federica Fracassi, Caterina Sanvi e Giuditta Vasile, Mirella Schino, Mariapaola Pierini ed Emiliano Morreale.
A cent’anni dalla scomparsa di Eleonora Duse, Sonia Bergamasco ci accompagna in un’investigazione sull’attrice che ha cambiato il mestiere della recitazione per sempre ispirando Lee Strasberg, fondatore dell’Actors Studio, e generazioni di attori. Come può una donna di cui rimangono unicamente un film muto e qualche foto e ritratto, essere ancora così influente? La Divina oltre il mito.