La caratteristica più sorprendente de La terra dell’abbastanza era l’assoluta coerenza stilistica e tematica con cui gli esordienti Fabio e Damiano D’Innocenzo erano riusciti a mettere in scena il sacrificio di due vergini alla periferia di una grande città. I primissimi piani quasi asfissianti riuscivano ad accompagnare per mano i personaggi nella discesa verso un inevitabile baratro, dando costantemente risalto, più che ai fatti stessi, a come i due ragazzi vivevano in diretta – assieme allo spettatore – ciò in cui si imbattevano durante il percorso. I campi larghi usati invece per raccontare una disperata situazione di abbandono a loro stessi, in un ambiente che per la sua potenza evocativa diventava il terzo vero protagonista di questo melò mascherato da noir. In tale alternanza tra primi piani e campi larghi emergeva, inquadratura dopo inquadratura, l’abilità dei fratelli romani nell’aver chiarissimo cosa raccontare e come raccontarlo, attraverso un’essenzialità di scelte che non tradivano neanche per un fotogramma l’idea di mondo che volevano restituire.
Una coerenza che ritroviamo, in maniera perfino più incisiva e puntuale, anche in Favolacce. Questa volta il punto di partenza è ben diverso, perché alla base del nuovo film dei fratelli D’Innocenzo c’è il ritrovamento di un diario: si parte quindi da una storia già scritta, in cui, per quanto il narratore affermi di averla rinvenuta incompleta, sappiamo che tutti i personaggi coinvolti, nel momento in cui la stiamo ascoltando, sono già andati incontro al proprio destino. L’intreccio delle storie di un quartiere della provincia romana popolato da famiglie piccolo-borghesi frustrate e disilluse offre questa volta allo spettatore un’esperienza narrativa molto più sfuggente e complessa, ma al contempo più viscerale e potente. In un contesto in cui la mancanza di dialogo, l’incomunicabilità e l’incapacità di capire gli altri determinano in maniera fondante ogni relazione, la scoperta progressiva del punto d’arrivo non potrà più infatti essere completamente aderente agli occhi di un protagonista come per La terra dell’abbastanza, ma dovrà per forza di cose arrivare dall’incrocio di più sguardi, da una visione d’insieme che trascenda la comprensione individuale.
I registi romani dimostrano da subito che ogni storia ha le proprie coordinate e che scelte di linguaggio adeguate possono e devono diventare parte integrante del racconto. Così, con l’avanzare dei minuti, lo spettatore diventa consapevole di quanto la prospettiva, al cinema come nella vita, sia assolutamente fondamentale per decifrare e provare a capire la realtà. Fabio e Damiano D’Innocenzo riescono a imprimere questo concetto a ogni fotogramma del proprio film, dicendo che per capire l’assurdità di una situazione familiare allo sbando a volte è necessario osservare dalla distanza, perché da vicino tutto appare deforme e incomprensibile; oppure evidenziando come anche un dettaglio, un vestito o un taglio di capelli riescano a comunicare più di un dialogo, di come si possa essere dannatamente tagliati fuori anche quando si è circondati da persone o come il fuori campo spesso riesca ad essere più narrativo di quel che abbiamo sotto agli occhi.
È una storia di assenze e di mancanze quella raccontata in Favolacce: la rappresentazione di un mondo strabordante di contraddizioni in cui aleggia un’aria di irrimediabile disperazione, nel quale sembra impossibile intervenire poiché tutto è già scritto, tutto è destinato a succedere e a tornare con maggiore insistenza, senza che nessuno possa rendersene conto. Inizia esattamente come finisce e nel mezzo vengono racchiusi tutti gli errori e gli abbagli su cui continueremo a cadere. Quella messa in piedi dai fratelli D’Innocenzo è un’esperienza cinematografica dalla potenza sensazionale, frutto di un’intelligenza unica nel saper leggere e inquadrare la propria idea di mondo e di una capacità davvero impressionante di trasformarla in cinema purissimo.
C’era una volta una favola nera, ambientata nella periferia sud di Roma, tra la malinconica litoranea brutalmente costruita ed una campagna che è stata palude. Una piccola comunità di famiglie, i loro figli adolescenti, la scuola. Un mondo apparentemente normale dove silente cova il sadismo sottile dei padri, impercettibile ma inesorabile, la passività delle madri, l’indifferenza colpevole degli adulti. Ma soprattutto è la disperazione dei figli, diligenti e crudeli, incapaci di farsi ascoltare, che esplode in una rabbia sopita e scorre veloce verso la sconfitta di tutti.