Ci sono mondi avvincenti e fiabeschi che si vivono solo da bambini. Sono mondi creati dai bambini, che hanno la capacità di forgiarsi una realtà privata e accattivante in cui la vita non è altro che lo svolgimento di una favola, quasi sempre a lieto fine. Non è un caso se il cinema attinge così spesso alle avventure infantili o adolescenziali. Il cinema iraniano degli ultimi anni in particolar modo: basti pensare a Jafar Panahi e ai suoi primi lavori, fino al recente Tre volti. Allo stesso modo il connazionale Majid Majidi ama raccontare storie giovanili, come ha fatto ne I ragazzi del paradiso, prima pellicola iraniana candidata all’Oscar al miglior film straniero. Anche Figli del sole, il suo ultimo lavoro, ha per protagonisti dei ragazzini: quattro amici, Ali, Abolfazl, Mamad, Reza, nella periferia di Teheran. Il loro mondo, quella realtà alternativa di cui si diceva, è quasi una risposta spontanea alla quotidianità cruda e impoverita in cui si trovano a vivere i loro undici, dodici – a volte anche meno – anni. E la responsabilità è degli adulti: i loro padri non ci sono più o è come se non ci fossero, rinchiusi in galera o annientati dalla tossicodipendenza. Se ci sono invece non fanno che creare problemi e mettere a repentaglio l’esistenza degli stessi figli, cercando di trascinarli nei loro affari criminali. Le madri pure sono assenti o del tutto impotenti, come quella di Ali, costretta su un letto d’ospedale dopo un incendio che le ha divorato la casa e la figlia. Quindi spetta a lui, e così ai suoi coetanei, occuparsi di sé stessi e di ciò che resta delle loro famiglie. Perciò devono barcamenarsi nei quartieri fatiscenti della città, chi lavorando in officina, chi rubacchiando qua e là. Ecco allora che credere alle favole diventa una strategia di sopravvivenza, una reazione necessaria per diventare grandi nonostante tutto.
È questo che sembrano dire gli occhi di Ali, interpretato dal bravissimo Rouhollah Zamani, che a buon diritto si è meritato il premio Mastroianni a Venezia 2020. Il suo volto pieno di lentiggini e di sogni è l’emblema dell’innocenza non ancora perduta. O meglio, di chi all’innocenza ha deciso di non rinunciare. Quando un anziano signore dai giri un po’ loschi lo ingaggia per recuperare un tesoro nascosto nelle fogne vicino al cimitero, lui si butta a capofitto nell’avventura, cercando di raggiungerlo con ogni mezzo.
Ma a credere alle favole sono anche, talvolta, gli adulti. È infatti agli ideali di giustizia sociale, uguaglianza e istruzione che si ispira la Scuola del Sole, un istituto di beneficenza che raccoglie i ragazzi dalla strada per dar loro un futuro. Preside e vicepreside lottano ogni giorno con la mancanza di fondi e l’indifferenza di una società a cui la cultura dei più deboli non sta per nulla a cuore, ma proseguono imperterriti nella loro missione. È qui che Ali e i suoi devono scavare per raggiungere il bottino. E l’unico modo è iscriversi alla scuola. Ecco allora che la ricerca del tesoro, uno dei tanti espedienti per guadagnare denaro in modo rapido e non del tutto onesto, diventa, paradossalmente, l’occasione per studiare e salvarsi dalla delinquenza.
Majidi adotta uno stile fortemente realistico nella rappresentazione dell’Iran contemporaneo e delle sue tante problematiche, dal traffico di stupefacenti alle discriminazioni nei confronti della minoranza afghana. Lasciando spazio via via al romanzo di formazione, soprattutto grazie alla relazione, come sempre conflittuale, tra maestro e alunno, che ha comunque qualcosa da insegnare al maestro. Nei momenti riservati ai bambini invece Figli del sole diventa un film d’avventura che si tinge di toni un po’ horror, in particolar modo nelle scene del tunnel che dovrebbe portare al tanto agognato forziere. Ali scava, faticosamente e ostinatamente, con le sue sole forze, in mezzo al fango e alla roccia: quasi un’analogia della difficoltà di farsi strada nel mondo di sopra.
A questa spinta sotterranea ne corrisponde una uguale e opposta. Uguale perché guidata dalla stessa tenacia, ma opposta nella direzione: l’idea di una fuga verso l’alto di chi deve ancora crescere e spinge lo sguardo in su, verso il proprio avvenire, è resa da immagini poetiche che spiccano in una regia per il resto piuttosto asciutta. Nel battere d’ali dei colombi libratisi in cielo, una volta aperte le gabbie, nel volo degli zaini lanciati oltre il cancello e nelle grida dei ragazzi che, al segnale del preside, si riappropriano dello spazio che legittimamente gli spetta: in questi brevi istanti di gioia si intravede il riflesso della libertà. E poco importa se gli adulti avranno deluso ancora una volta, con la loro gretta ingordigia, i bambini. La campanella della scuola suonerà ancora una, e forse non ultima, volta.
A Teheran, Ali e i suoi tre amici lavorano sodo per sopravvivere e sostenere le proprie famiglie, tra lavoretti in garage e piccoli reati per fare velocemente due soldi. Con un colpo di scena quasi miracoloso, ad Ali viene affidata la responsabilità di recuperare un tesoro nascosto sottoterra. Il giovane quindi recluta la sua banda, ma per ottenere l’accesso al tunnel, i bambini dovranno prima iscriversi alla Sun School, un istituto di beneficenza volto a formare ragazzi di strada e bambini lavoratori, situato vicino al tesoro nascosto.