È scontato che fumare, soprattutto in modo compulsivo e nervoso, faccia tossire. Così come il fatto che accarezzare un capo di pelle scamosciata procuri piacere al tatto, un piacere quasi sensuale, che ci siano persone che non fanno male nemmeno a una mosca, o che uno pneumatico, lanciato lungo una superficie debitamente pendente possa procedere, per così dire, all’infinito. A queste situazioni (Doppia pelle, Mandibules, Rubber) Quentin Dupieux imprime sempre un cambiamento di senso, un déplacement, che è insieme spostamento e spaesamento, e che colloca il suo cinema in un registro ai confini con il grottesco e il demente, ampiamente frequentato in Francia e lande francofone, terra d’elezione di Bruno Dumont da P’tit Quinquin a L’empire, ma anche del Jaco Van Dormael di Dio esiste e vive a Bruxelles o dell’Alain Guiraudie di Le Roi de l’évasion.
Ma Dupieux une place, un posto, d’onore e ben consolidato ce l’ha. Prima come musicista, con lo pseudonimo di Mr. Oizo, coccolato in quell’universo parallelo che è la French House, reso celebre dagli spot della Levi’s con il suo Flat Beat, poi come regista, subito adottato dal Festival di Cannes (dopo l’esordio di Steak, Rubber è subito presentato alla Semaine de la Critique) e quindi immediatamente assorbito nel “discorso del Festival” internazionale (dal Sundance a Berlino a Venezia), e dalla critica francese che lo battezza (sempre Steak ottiene il primo sacramento da Libération, Cronich’art e, naturalmente, dai Cahiers) e ne segue affettuosamente l’evoluzione (ancora i Cahiers gli dedicano qualche mese fa uno speciale, per celebrare l’uscita di Yannick).
Così, sospeso tra déplacement e place d’honneur, Dupieux continua a perpetrare il suo cinema-gioco, che è un po’ jeu de mots, gioco di parole narrativo in cui il ribaltamento contro-intuitivo delle situazioni e delle azioni genera facezie, e un po’ jeu de rôle, gioco di ruolo. Con Fumare fa tossire si assesta definitivamente in questa posizione: gioca a fare il simpatico rimescolatore di carte, fornisce mani pazze, cambia le regole, smette, poi ricomincia.
La Tabac Force è un gruppo di Power Rangers dementi (più che demenziali) che uccide mostri da kaiju eiga con il potere nefasto delle sostanze contenute nelle sigarette, segue malvolentieri gli ordini (per i membri maschili) o si innamora perdutamente (per la componente femminile) di un topo bavoso, viene spedito in colonia per fare gruppo, cerca di salvare il mondo, ma forse manda tutto a puttane, e si mette a fumare (in modo compulsivo e nervoso, così rischia di tossire).
Il tutto in un décor retro vintage che omaggia il cinema e la fiction sci-fi degli anni ’70.
La situazione narrativa è, ça va sans dire, poco più di un pretesto, per incastonare storielle, un po’ Decameron e un po’ Mille una notte. Ha una durata curiosa, meno di un’ora e mezza, per sottolineare che ci troviamo in terra di mezzo tra mediometraggio e lungometraggio (e che Dupieux può fare quello che vuole), e ricordare che al film manca almeno un terzo, perché le storie si troncano prima della fine (l’apologo sul nipote scemo ridotto a labbra da una macchina trita-legno si tronca perché il barracuda che la sta raccontando brucia sulla piastra), abortiscono (il povero Mercurio non riesce a iniziare la sua histoire d’horreur e a finire quella della buonanotte per i bambini), o muoiono in culla (il pesce della bambina petulante finisce affogato nei liquami di scarico, o forse è il barracuda che….). Anche la grande narrazione apocalittica del perfido Lézardin (Benoît Poelvoorde), divinità cattiva che non vive a Bruxelles ma da qualche parte nello spazio e che vorrebbe distruggere la Terra perché “è un pianeta malato”, finisce, letteralmente, strozzata, per colpa di una zuppa cosmica con cui moglie e figlio lo avvelenano.
Edipo interplanetario, sessualità perversa (le donne sbavano per la bava fetida del topo-capo), satira sociale (l’inquinamento, i morti sul lavoro, il fandom ossessivo, forse anche la tecnofilia, o la tecnofobia), ricerca ossessiva del nonsense. E della complicità.
Dello spettatore (che prima o poi si alzerà, come Yannick, e chiederà di riscrivere tutta la storia…) e della politesse des acteurs, che accorrono estasiati per avere un rôle, dans le jeu: Adèle Exarchopoulos (era già in Mandibules), Gilles Lellouche, Vincent Lacoste, Oulaya Amamra, in precedenza c’erano stati Jean Dujardin e Adèle Haenel (Doppia pelle), Alain Chabat e Léa Drucker (Incredibile ma vero), e via così. Gioco di ruolo, caccia al tesoro, a scovare i dettagli divertenti, indizi epitomici che il mondo va al contrario e che bisogna (bisogna!) divertirsi: il van con la guida a destra in Francia, il conto alla rovescia che parte dal 12, la donna-dispensiera (che dispensa moniti contro la mascolinità tossica), il casco per dormire, il laghetto attraversato a nuoto o in barca.
Forse le blocage symbolique, il punctum sintomatico, la chiave interpretativa, è già nelle parole della straordinaria Dieu fumeur de havanes di Serge Gainsbourg (con Catherine Deneuve) sui titoli di testa: Dieu est un fumeur de havanes…tu n’es qu’un fumeur de gitanes.
Dio forse vive a Bruxelles, forse su un altro pianeta, ma tu, mon cher Quentin, non sei altro che un fumatore di gitanes…
Un gruppo di vigilantes chiamato sta cadendo a pezzi. Per ricostruire lo spirito di squadra, il loro leader suggerisce di incontrarsi per un ritiro di una settimana, prima di tornare a salvare il mondo.