La sezione Cinemalibero ha rappresentato un luogo particolarmente ricco - in un programma già di per sè straordinario – di questa edizione de Il Cinema Ritrovato. Si tratta di un insieme di film che, come ha ricordato la curatrice Cecilia Cenciarelli prendendo a prestito le parole di Fernando Solanas, “incarnano l’urgenza di intervenire e rettificare la storia, di fornire una scoperta attraverso la trasformazione”. Undici film, che in un arco temporale che va dai primi anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta, hanno rappresentato un luogo di critica fondamentale in un periodo storico in cui le lotte anticoloniali – con le armi, come si è visto in O regreso di Amílcar Cabral di Sana Na N’Hada o con le immagini come si è visto in molti dei film di questa sezione – hanno avuto il merito di “provincializzare l’Europa”, secondo l’espressione di qualche tempo fa del filosofo postcoloniale Dipesh Chakrabarty. Un’operazione in realtà mai conclusa, viste le tendenze recenti nella politica tanto quanto nell’immaginario, di rimettere al centro l’Occidente come luogo strutturalmente riluttante a essere considerato pari tra pari, in un tentativo disperato di Europa e Stati Uniti di ritornare a una grandezza perduta. Ed è per questo che nel cortocircuito reso possibile dalle immagini - che come sappiamo hanno un rapporto imprevedibile e non lineare con il tempo storico - si finisce inevitabilmente per dire qualcosa anche sul presente.
Tra le tante opere degne di nota di questa sezione, una delle più “aliene” e sorprendenti è stata sicuramente Al Ôrs del Collectif Nouveau Théâtre de Tunis (Fadhel Jaïbi, Fadhel Jaziri, Jalila Baccar, Mohamed Driss, Habib Masrouki) del 1978 e tratto dall’omonima opera teatrale messa in scena dallo stesso collettivo due anni prima. Si tratta di un film girato esclusivamente nel chiuso di un appartamento e con in buona sostanza, due soli personaggi: un marito e una moglie che si trovano nel settimo giorno dopo le nozze, quello cioè della conclusione dei festeggiamenti, a dover affrontare la solitudine della loro relazione. Ed è in questo scenario da after party, dove l’euforia della celebrazione inizia a lasciare il passo alla riflessione dimessa del disincanto, che va in atto una progressiva dissoluzione del nucleo familiare. Come se in un’ora e mezza di film non vedessimo soltanto il tempo diegetico di una notte, ma l’intera parabola di una rapporto, che dall’idealizzazione passa per la prova di realtà prima di giungere alla disperazione finale, in un’allegoria delle promesse di emancipazione tradite del popolo tunisino, che dall’indipendenza del 1956 si sono tramutate nella reazione dei regimi di Habib Bourguiba prima e di Ben Ali poi. E in effetti anche le vicende che hanno accompagnato il film - in cui Habib Masrouki, cofondatore del Nouveau Théâtre e direttore della fotografia del film che si è tolto la vita dopo la conclusione delle riprese - non fanno che incarnare ancora di più l’atmosfera di una pellicola intrisa di disincanto e disillusione.
Ma basterebbe la primissima scena del film, dove sentiamo trasmessa dalla radio di casa “La ballata di Mackie Messer” da L’opera da tre soldi per capire chi è davvero il nume tutelare del Nouveau Théâtre in generale, e in particolare di questo film: Bertold Brecht. E in effetti il lavoro sullo spazio scenico, che già riprende la messa in scena teatrale del 1976, è insieme alla fotografia giocata sui conflitti tra il bianco e il nero, senza sfumature e senza grigi, la cifra fondamentale di quest’opera. Tutta la vicenda si svolge in un paio di stanze di un appartamento decadente della medina di Tunisi, che dovrebbe essere lo scenario di una nuova famiglia che sta per nascere, e invece è già vecchia, decadente, quasi abbandonata. E in effetti verremo a sapere molto presto che la casa è già in procinto di essere rasa al suolo dalle autorità municipali, che hanno deciso in quel luogo di far sorgere un parcheggio. Ancora una volta le promesse tradite di una modernità occidentale che andrà soltanto a portare ancora più diseguaglianza. Ancora una volta un tempo storico che per i subalterni è quello della continua ripetizione di sé stesso, e dove l’idea di futuro è inseparabile da quella di una catastrofe imminente. E ancora una volta il fuori campo del Nouveau Théâtre che entra nella rappresentazione: la prima recita della versione teatrale di Al Ôrs si tenne nella galleria Yahya di Tunisi, convertita in spazio scenico all’interno di una riflessione sui luoghi del teatro negli spazi della città. Ma fu la prima e l’unica, dato che poco dopo il palazzo dove aveva sede venne raso al suolo per costruirvi un centro commerciale.