Christian Labhart

Giovanni Segantini – Magia della luce

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Dreimal heimatlos, tre volte senza “patria”: questa definizione che Gustav Mahler dava di sé stesso si attaglia perfettamente a Giovanni Segantini, nato, come il compositore, suddito dell’Impero Austro-ungarico, considerato apolide nella Milano dove passò la travagliata adolescenza e gli anni della formazione, straniero in Svizzera, dove realizzò i suoi capolavori maturi. Ora, ironia della sorte, è reclamato (e acclamato) gloria nazionale da tutti e tre gli stati: un giro wikipediano è assai istruttivo su come si possa “correggere” la storia con un aggettivo. La vallata dove sorge la sua città natale, Arco, vicino a Trento, è stata fissata da Albrecht Dürer in un acquerello celeberrimo datato 1495. La rocca, la cui immagine si vede anche all’inizio del film di Christian Labhart, stagliandosi in mezzo al verde, è uno di quei luoghi che obiettivamente emanano un’energia irresistibile, o forse semplicemente la imbrigliano nelle strutture possenti del granito. Non è così peregrino il discorso sull’energia, se consideriamo il fatto che Labhart è, tra l’altro, autore di un documentario sull’antroposofia, Zwischen Himmel und Erde, 2010, ed è innegabile che molta parte della produzione documentaria della RTSI negli ultimi vent’anni ha subito la fascinazione per il pensiero steineriano e per tutto quello che ruota intorno a un'altra altura, il Monte Verità di Ascona.

Le vette, però, dove Segantini approda, quelle dove, nelle condizioni più radicali di pittura en plein air, realizza i suoi capolavori maturi, sono quelle dell’Engadina, una “riserva indiana” nel tessuto confederale svizzero, ancora una volta Heimat putativa e negata, e poi, in qualche misura, teatro di apparizione, nella fase matura e simbolista, dell’Unheimlich. Il Maloja, il passo della val Bregaglia che porta nell’alta Engadina, è dirimpetto a una delle alpi cinematograficamente più fortunate degli ultimi anni, Segl, o Sils, dove Olivier Assayas ha filmato Sils Maria: in quella vallata si crea il serpente di nubi che, come uno spettro, i personaggi evocavano per tutto il film. Il cielo, le ombre, le nuvole, la morte hanno un ruolo chiave nella maturità di Segantini: in alcune delle sue ultime tele, come Le cattive madri (1894), ma, prima ancora, Il castigo delle lussuriose (1891) quello stesso scenario si fa purgatorio, e figure femminili (le donne della società contemporanea che rifiutano la maternità) fluttuano come nubi sulla conca di Maloja.

Il film di Labhart, strutturandosi in flashback, a partire dal funerale del pittore, mostra l’onnipresenza del tema della morte nell’esistenza, prima ancora che nella produzione artistica del pittore trentino: la dipartita della madre come prima memoria, e il sospetto di averla cagionata nascendo, danno un’intonazione precisa alla narrazione, come del resto la presentazione in ordine non strettamente cronologico (preoccupandosi relativamente delle fasi e degli stili) di opere quali L’angelo della vita (1894), Gli orfani (1886) o Le due madri (1889), a ribadire come il tema lo ossessionasse tutta la vita.

Strutturato in tre sezioni che mutuano i sottotitoli del Trittico della Natura (1899), il film di Labhart alterna passi diaristici e corrispondenze dello stesso Segantini (l’ortografia dell’italiano zoppicante del pittore è normalizzata, in alcuni casi sembrano sentenze troppo teoriche per essere completamente sue), a brani di un romanzo della scrittrice svizzera Asta Scheib; due narratori, quindi, la voce italiana del pittore è quella di Teco Celio (laddove nell’originale è quella graffiata e vagamente disturbata di Bruno Ganz), la “narratrice” è Graziella Rossi (in originale Mona Petri). Il violinista Paul Giger, autore delle musiche, intreccia la rielaborazione accorata di Bach e le dissonanze metalliche delle proprie composizioni originali, così come la fotografia, di Pio Corradi, veterano della documentaristica svizzera, alterna scorci “pittoreschi”, come Arco o la Brianza, prima ancora dell’Engadina (con una luce che però sfugge alla tentazione di replicare quella dei dipinti) a panorami urbani plumbei e inequivocabilmente contemporanei; su tutti una Milano livida e sporca, dominata dai grattacieli dell’ultima urbanizzazione: città difficile oggi, come era difficile quando, uscito dal riformatorio, Segantini si iscrisse ai corsi serali di Brera. La stessa Brianza, il lago di Pusiano, Inverigo, Veduggio, i luoghi dove si consolida il rapporto con l’amata moglie Bice Bugatti (sorella dell’ebanista e proto-designer Carlo), dove nascono, tra i patemi di ritorni autobiografici, i primi figli, sono filmati con una malinconia sospesa, che sembra assecondare il commento segantiniano, l’afflato continuo a più alte vette, ma anche le preoccupazioni economiche confidate per lettera a Vittore Grubicy. Preoccupazioni che prendono la forma di un incubo, nel quale la descrizione dell’apparizione di una “bestia schifosa” è contrappuntata dalle riprese in dettaglio di un autoritratto spiritato, dallo sguardo vitreo, datato 1882: se, all’inizio, il narratore, diceva di non aver cercato mai altro dio al di fuori di sé, questa sequenza sottolinea la compresenza del mostro, dell’Unheimlich, fianco a fianco con quel dio. Uno stato depressivo (ben lungi dall’essere diagnosticato come tale) per il quale «perfino in Brianza l’aria si fece troppo opaca e pesante per me».

È di fronte alla luce dell’Engadina che Segantini dice alla moglie «qui voglio restare». La necessità di isolarsi sopra i 2000 metri dove «le cose si vedono in modo più naturale che a valle, dove i pensieri si adeguano alle forme dominanti» è la scelta di un isolamento che lo stesso pittore reinterpreta alla luce di una posizione anarchica sui generis, che rivendica per sé e per tutti i veri artisti.

Le alture alpine offrono al pittore la possibilità ragionare sulla propria “sinfonia artistica” evidenziando in maniera assoluta il ruolo chiave della luce e dell’ombra nel disegno e nella composizione, l’ostinazione a carpirne la magia, attraverso la purezza del colore giustapposto il rapparto con il bianco (ad un certo punto Segantini elenca i differenti toni di bianco adoperati, insieme agli altri colori). Però, al tempo stesso, questa tensione all’altissima quota, quasi al Sole stesso, rappresenta, se non un rifiuto, un allontanamento dalle novità rivoluzionarie della contemporaneità. Così come sembra una scelta radicale il rifiuto della fotografia come strumento di mediazione nella composizione (pensando all’uso intelligentissimo che ne fa, negli stessi anni, l’amico Pellizza). Nemmeno il cinema, invenzione subentrata solo nell’ultimo tratto della vita dell’artista, sembra lambire la sfera segantiniana: non ha avuto il tempo, probabilmente, di vedere questa nuova diavoleria e di capire che si nutriva anch’essa della luce, restituendone la magia. Eppure di scatti fotografici di Segantini e della sua famiglia ne sopravvivono, specialmente legati all’ultimo decennio. Alcuni, giustamente celebri, mostrano il pittore alle prese con le tele del Trittico della Natura, per l’Esposizione Universale di Parigi del 1900, montate in una struttura protetta, issata vicino a una capanna, a 2700 m di quota, come uno schermo di 3 metri e più, di fronte a un piccolo teatro naturale, con un pubblico di amici e curiosi: il gesto pittorico tradotto in spettacolo, seppure per pochi. L’ultima di queste foto è scattata, nel 1899, quando la vetta dello Schafberg era già innevata, e davanti a La Morte, ultimo pannello del Trittico, si vedono solo Segantini e la fida Baba, tata e modella: le nuvole che occupano (come il serpente del Maloja) la parte centrale del dipinto, sono ancora solo abbozzate, scurissime. Davanti a quel quadro, l’ultima settimana di settembre dello stesso anno, il pittore è colto da un attacco letale di peritonite e morirà qualche giorno più tardi. Una magnifica corona di fiori, al suo funerale, recita “al sommo Maestro, i Secessionisti di Vienna”. In quella capitale, la sua capitale rifiutata, dove i giovani artisti lo veneravano come maestro, lo stesso anno, va in stampa Die Traumdeutung, ovvero L’interpretazione dei sogni, di Sigmund Freud: chissà se sarebbe mai approdato nella caotica biblioteca di Segantini, un libro che, a lui che sapeva di cosa è fatta la luce, sarebbe stato utile per fare i conti con la sostanza delle nuvole.

Giovanni Segantini – Magia della luce
Svizzera, 2015, 82'
Titolo originale:
id.
Regia:
Christian Labhart
Sceneggiatura:
Christian Labhart
Fotografia:
Pio Corradi
Montaggio:
Annette Brütsch
Musica:
Marie-Louise Dähler, Paul Giger
Produzione:
SRF, SRG
Distribuzione:
Lab 80 Film

Il film, dedicato alla figura dell'artista Giovanni Segantini, ricostruisce la sua vita e la sua passione per la pittura attraverso immagini, testi e diari originali. Il risultato è un ritratto prezioso e appassionante di una delle figure più carismatiche della pittura europea di fine Ottocento: pittore, ma anche anarchico ed emarginato. Giovanni Segantini, nato ad Arco in provincia di Trento nel 1858, ha trascorso una vita intensa e tormentata, che lo ha portato a cercare e ricreare nei suoi quadri la vertigine dell'altitudine, la tensione vitale della vita a contatto con la natura, la luce unica delle alte quote. E proprio in montagna Segantini morì, durante la sua attività.

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