Lo scorso 11 luglio, Jafar Panahi, presentatosi presso il pubblico ministero di Teheran che tre giorni prima aveva arrestato i registi Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad, è stato a sua volta messo in stato di fermo e condannato per direttissima a sei anni di prigione. Una condanna che arriva dopo quella del 2010, quando il regista iraniano, da sempre oppositore del regime, venne anche in quel caso incarcerato e poi rilasciato con l’interdizione a lasciare il Paese e a realizzare film.
Come sappiamo, nel corso degli anni Panahi ha continuato in realtà a confezionare film presentati a Cannes e Berlino (This Is Not a Film, Closed Curtain, Taxi Teheran, Tre volti), mettendo a rischio la propria posizione e al tempo stesso proseguendo quel lavoro di rispecchiamento nella finzione e nella pratica materiale del cinema avviato fin da Lo specchio, nel 1997.
Panahi è il tramite dei propri film, il corpo attraverso cui passa la riflessione sul rapporto fra realtà e messinscena, verità e rappresentazione. Il suo cinema si fonda sullo svelamento del dispositivo filmico e su figure stilistiche e formali totalizzanti (lo specchio, per l’appunto, e poi la circolarità di Il cerchio, il fuoricampo di Offside) per mettere in discussione e così ribadire un diritto di parola, di racconto e, per l'appunto, di messinscena. Di fronte a un nuovo arresto, Panahi si pone dunque ancora una volta come soggetto e oggetto di sguardo del proprio film: è lui la fonte delle immagini, lui il centro del discorso, lui il responsabile dell’inevitabile fallimento del cinema di fronte all’irrompere della vita.
In Gli orsi non esistono il regista si trasferisce in un villaggio di montagna al confine con la Turchia per gestire a distanza le riprese di un film che la sua troupe gira nella città turca poco distante; da remoto, quando la rete lo supporta, segue le riprese e parla con l'aiuto regista. Il suo film racconta la storia di una coppia di esuli iraniani che sta cercando di partire per Parigi con documenti falsi: una storia vera, interpretata dagli stessi protagonisti, che però i ciak incanalano nella finzione causando non pochi problemi alla donna della coppia. Nel frattempo, nel paese dove risiede ospite di un brav’uomo, Panahi incappa in un problema non da poco: per colpa di una foto che ha scattato casualmente, una coppia di fidanzati clandestini è stata scoperta e ora il pretendente della ragazza chiede soddisfazione, a meno di non veder restituita la foto o di avere da Panahi una dichiarazione firmata che in realtà lo scatto non esiste. Quell'immagine dunque esiste oppure è solo immaginata? Inoltre, come se non bastasse, le autorità iraniane, scoperto che il regista interdetto dal lasciare il Paese ha preso alloggio a pochi chilometri dal confine presidiato dalle bande di contrabbandieri, hanno cominciato a indagare sulla sua attività…
Il film è dunque un gioco di scatole cinesi, o meglio una serie di livelli sovrapposti, affiancati, montati in sequenza, in cui a dominare è l’immagine dello stallo, dell’impossibilità di oltrepassare i confini. Confini tra le nazioni, tra legge e violenza, ovviamente tra realtà e finzione. Panahi è il fulcro di tutto questo gioco, vittima quando è costretto a sottostare agli obblighi delle autorità; carnefice quando costringe i protagonisti del film a piegarsi al racconto; privilegiato quando da intellettuale di città osserva le cerimonie ataviche degli abitanti del villaggio.
Il continuo gioco di svelamenti, di campi e controcampi, di scene al di qua e al di là del confine, riprende l’inesorabile rimpallo di responsabilità e libertà individuali che ogni regista vive nel proprio lavoro, così come ogni individuo negozia continuamente la propria identità rispetto alla comunità in cui si muove. Panahi insegue in questo modo la totalità del cinema, la gabbia che ogni film costruisce attorno ai luoghi e ai personaggi che racconta, replicando lo stato di prigionia e paradossale libertà interiore che vive da più di un decennio.
Anche alla luce di ciò che è successo due mesi fa, Gli orsi non esistono diventa così la summa forse involontaria (o forse no) della sua condizione, l’impasse di un autore che per raccontare la realtà è costretto a rinchiuderla nelle immagini, mentre nella vita soffre di una reclusione alla quale non c’è scampo (e nel momento più bello del film è lui stesso, Panahi, a valicare per un attimo il confine fra Iran e Turchia, salvo poi tornare indietro). Se però una cosa è certa – come del resto dimostra lo sviluppo tragico del film – è che la realtà sfugge sempre a ogni controllo, mentre ogni uomo - regista o meno - è chiamato, più che a fuggire o a oltrepassare i confini, a mettere un punto fermo sulle cose. Come tirare un freno a mano, bloccarsi e accettare fino in fondo il proprio compito.
Due storie d’amore parallele. In entrambe, gli innamorati sono tormentati da ostacoli nascosti e ineluttabili: la forza della superstizione e le dinamiche del potere.